Haec casa quae lacera et stat agrestibus horrida culmis novum dabit spectaculum, quale nihil saeclis proavi videre vetustis nihil videbunt posteri

Erasmo da Rotterdam, La capanna natale del bambino Gesù

Erasmo da Rotterdam saggiamente sottolinea la meravigliosa paradossalità del luogo di manifestazione dell’Incarnazione di Dio: la capanna umile e dimessa di Betlemme, fra i pascoli delle pecore, di notte. Non le regge dei potenti, non palazzi lussuosi e neppure il degno Tempio di Gerusalemme ma un luogo semplice, abbandonato, dove, si raccontava, Davide giovane pastore desse ricovero al suo piccolo gregge. Un luogo dimenticato, popolare, austero, senza orpelli né distrazioni. Un luogo dell’anima per ospitare un qualcosa di indicibile che congiunge gli opposti: Cielo e terra, Luce dentro le tenebre, Dio e umanità nel Pastore che si fa agnello, nel Padrone che si fa bambino, cioè un qualcosa di semplice, innocente, avvicinabile. Se si fosse manifestato in tutta la Sua gloria chi avrebbe potuto sostenere un tale incontro in una tale sproporzione? E allora Dio si abbassa alla nostra semplicità e modestia per potersi rendere incontrabile, adorabile nella dolcezza, amabile nella debolezza; perché la debolezza di Dio è una nuova forza per l’uomo superiore a ogni forza umana (1Cor.1,25). Dio è Logos (Gv.1, 1-3) e quindi non fa nulla per caso o assurdamente; se ha scelto una capanna, un ricovero per animali quale luogo dove manifestare la Sua divina Incarnazione significa che gli elementi di questo luogo possono insegnarci come avvicinarci nel modo più adatto e più diretto alla Presenza divina. Ripercorriamoli allora insieme, certi che si tratti di una via sicura e giusta sia per i semplici pastori che per i sapienti come i tre re orientali. Il primo contesto sembra avverso: il censimento imperiale. Segno di superbia e di una dominazione che si vuole totale, tirannica: nessuno deve sfuggire al controllo del potere in modo che tutti siamo costretti a pagare il tributo all’imperatore. Ma già in questa coazione palpita un afflato profetico: ciascuno deve risalire al luogo da dove viene la sua stirpe per “dare il suo nome”, cioè manifestare la propria essenza, la propria natura. Il Disegno divino si intreccia sapientemente con i disegni umani e mondani affinchè sia rivelato nella casa di Davide, a Betlemme (che significa: casa del pane) il Figlio che compie le promesse di Dio a Davide: un trono eterno di grazia e di gloria; e affinchè sia rivelato a tutti e per sempre il Nome di Dio cioè “salvezza misericordiosa inviata a tutti gli uomini”, cioè Gesù Cristo. Il movimento di Giuseppe che sale dalla “Galilea delle genti”, terra di popoli differenti mescolati ai figli di Israele (greci, fenici, siri, arabi, romani) verso le alture della Giudea dove è Betlemme indica il movimento del ritorno a Dio tramite l’immagine del monte e dell’ascendere. “Dare il nome” cioè glorificare il potere imperiale diventa uno strumento della divina provvidenza per manifestare e compiere la gloria di Dio. Alla voce imperiosa del potere umano Dio risponde con la dolcezza umile e fedele della Santa Famiglia che torna alla radice davidica per farsi strumento del compimento delle principali profezie messianiche della prima Alleanza. Tornare alla radice della stirpe santa, tornare alla “casa del Pane” per poter “lasciarsi incontrare” dall’Autore della vita, il Pane disceso dal Cielo (Gv.6,35 ss). Al Re dei re non servono legioni per imporre l’obbedienza e consolidare il suo regno ma gli basta una stalla e due spiriti fedeli (Giuseppe e Maria) per sedurre e attrarre ogni spirito docile e innocente. La povera e nascosta ma fecondissima carovana della Famiglia teofora giunge alla stalla-grotta-recinto dove il Primogenito della vita rigenerata, il Primo della palingenesi teandrica viene deposto, in una mangiatoria-culla-trogolo (phatne) ad indicare che è Lui il cibo eterno delle anime e della vita stessa e che solo tramite questo luogo d’incontro (la sua carne vivificante e divinizzante) è possibile farsi veramente uomini e figli  di Dio passando da uno stato di vita animale ad uno stato di vita celeste. Nella mangiatoia gli animali si nutrono di fieno d’inverno, cioè di erba tagliata ed essiccata. Così la Sacra Scrittura indica l’umanità di ogni tempo: effimera come l’erba che cresce al mattino e alla sera viene falciata (Is.40,6-8). Ebbene questa mangiatoria che diventa altare e trono indica proprio che Dio può fare di un umanità fragile ed effimera: una trasformazione nel divino. L’uomo trasforma in se stesso l’erba di cui si nutre e Dio trasforma in se stesso l’uomo che si fa nutrire da Dio. Un bambino al posto del fieno manifesta la nuova umanità in Dio che ci divinizza, altrimenti restiamo simili alle bestie. Colui per il quale non c’era posto negli alloggi umani si fa Lui stesso nuovo e definitivo alloggio che ristora e sazia le anime. Come giungere alla capanna dove si cela il Salvatore? In primo luogo vegliando durante le notti mentre si è a guardia del proprio gregge, oppure lasciando la propria terra per seguire una nuova stella, come fanno i saggi d’oriente. Sia pastori che saggi vegliano la notte; non si accontentano del mondo e del giorno. Sentono che c’è altro, qualcosa di più grande e che occorre silenzio e raccoglimento per coglierne i segni e la presenza. A loro modo anche i pastori sono saggi studiosi, perché nel tempo applicano il loro cuore nella meditazione. E similmente i saggi re d’oriente sembrano pastori perché migrano seguendo una nuova terra, cercando un nuovo pascolo, anche se non lo conoscono. Sanno attendere e aspettare, come Simeone che vive attendendo il Regno di Dio (Lc.2,25.26). Ecco l’imprevisto, il dono: la stella nuova che viaggia, per i Magi e la luce angelica che li abbraccia e annunzia la nascita del Salvatore nella città di Davide. I pastori credono, non dubitano e seguono la voce angelica fino all’incontro con il bambino che ora sanno, prima di tutti, velare la presenza piena di Dio. Alla voce corrisponde il fatto, al segno il significato, all’immagine la realtà, alla gloria celeste la pace terrena. Tutto ora concorda e si tiene. I pastori danno gloria a Dio, parlano tra di loro, e raccontano la loro rivelazione a Giuseppe e Maria. Il loro cuore è trasparente e docile, obbediente e solerte, zelante. Per questo sono amati da Dio per primi e inclusi nella Sua gloria che si rivela e irradia. Mentre tornano ai loro greggi i pastori lodano e glorificano Dio perché hanno capito l’immenso dono che hanno ricevuto. Come il bambino per i pastori così la stella regala una nuova e grande gioia ai Magi. I pastori donano agnellini, i Magi donano oro, incenso e mirra. Diversi i doni ma unica l’adorazione. Il Pastore fa della casa delle pecore un nuovo tempio dove il divino inabita l’umano. I Magi aprono gli scrigni preziosi, i pastori solo gli scrigni dei loro cuori. I Magi sono guidati dall’osservazione di una nuova stella e dall’ascolto della Sacra Scrittura rivelata a loro in Gerusalemme (Mic.5,1), i pastori direttamente dalla voce degli angeli. Gli elementi più semplici, che vengono dalle tradizioni apocrife e orali, appaiono anch’essi eloquenti: la paglia che sembra rispecchiare la stella che si ferma sopra il ricovero pastorale, il bue e l’asino, segni di sacrificio e di messianicità davidica, Giuseppe che esprime il carisma patriarcale della custodia, e la Vergine come compie la profezia di Isaia (Is.7,14) fiorendo come il fiore dalla verga di Iesse. Tutto si placa e si compendia attorno alla capanna-grotta-recinto che l’arte talvolta ci mostra come insieme di rovine, ad indicare gli idoli che il Cristo distrugge con la Sua venuta.