Al di là dei sogni del regista Vincent Ward è un film drammatico/sentimentale del 1998 ma che mi permetto di affermare come sia, invero, una pellicola intramontabile; non a caso profonde ed affascinanti sono le commistioni e numerosi gli altrettanto evidenti riferimenti alla pittura, alla Divina Commedia e alle religioni orientali, per esempio.

A seguire il cast. Robin Williams ad interpretare Chris Nielsen, Cuba Gooding Jr. a vestire i panni di Albert Lewis e Rosalind Chao quelli di Leona, Annabelle Sciorra nel ruolo di Annie Collins-Nielsen, Max von Sydow quale The Tracker, Jessica Brooks Grant calata nella parte di Marie Nielsen, Josh Paddock ad impersonare Ian Nielsen.


Ma ora focalizziamoci sulla trama. Il detto fantasy è la storia di Chris e Annie, che si incontrano-scontrano casualmente su un lago al confine con la Svizzera. Annie urta la barca di Chris con la propria, poi lo ritrova tempo dopo e si innamorano, e si sposano. La coppia ha due figli, il maggiore Ian e la minore Annie.

Chris è un dottore con la passione per l’arte, Annie una pittrice e restauratrice di dipinti che non espone bensì lavora in un museo. La vita dei due trascorre serena finché una mattina i loro bambini muoiono in un incidente d’auto. Da lì a poco anche Chris viene a mancare in un incidente stradale, mentre soccorre alcuni feriti in una galleria.

È così che l’anima dell’uomo viene aiutata a prendere coscienza della propria dipartita da Albert. Inizialmente non riesce a fare a meno della vedova, che intanto cade in depressione. Accortosi però che standole accanto – calandosi col pensiero nella sua traumatizzata quotidianità – ne inibisce il ritornare un minimo in sé, Chris se ne separa e si ritrova ad abitare in un paesaggio montano simile ad un quadro della moglie. Il suo Paradiso prende la forma dei luoghi nei quali avrebbe voluto trascorrere la vecchiaia con Annie.

Nielsen ormai vive di ricordi ed impara ad animare la nuova realtà che crea con la mente. Allorché tuttavia Collins si suicida, Albert confessa a Chris che tale atto la obbliga all’Inferno (e dunque non la riabbraccerà più) in quanto ha interrotto l’ordine dell’esistenza, non rendendosi neppure conto del gesto compiuto – per altro, difatti, dall’Averno nessuno è mai tornato. Chris, non di meno, non vuole arrendersi all’incontrovertibile e scende nell’oltretomba per riunirsi con la “twin soul”.

Aiutato da uno psichiatra, con la funzione di guida, passa dai colori celestiali al cupo di un fiume pieno di dannati e allo scuro del mare in tempesta. Giunto in ultimo ad un livello popolato di facce che sbucano dal terreno, il pediatra individua Annie la quale si è costruita un mondo assai simile alla casa in cui vivevano insieme, ma in rovina. L’accompagnatore di Chris gli spiega a questo punto che lui potrà solamente dire alla consorte cosa prova per lei, senza che ella riesca a riconoscerlo e soprattutto avvertendolo che, se rimarrà troppo a lungo lì, la sua anima si perderà nella lugubre realità che Annie ha edificato. Questi entra pertanto spacciandosi per un vicino e, non identificato, le racconta la loro storia. Sullo scadere del tempo a disposizione Annie sta per capire chi è sennonché d’improvviso si sente attaccata e lo respinge.

Chris capisce allora che non c’è più nulla da fare per salvarla. Esce dalla catapecchia e saluta lo psichiatra per infine ritornare dentro la malandata casa e non separarsi più dalla moglie (sebbene significhi perdersi entrambi). Nel frattempo continua a ricordarle il loro amore, riuscendo inaspettatamente a far breccia nel cuore di Annie che li salva entrambi. Ambedue in Paradiso, vengono raggiunti dai figli e decidono di reincarnarsi per darsi ancora differenti possibilità, ritentare ed intraprendere scelte diverse, sicuri di ritrovarsi sempre.

Film, questo, in ogni passaggio emozionante lo è ancor di più se ci si ferma a riflettere su alcune frasi. Solo per citarne certe, è Albert ad affermare <<Il vero inferno è una vita andata storta>>. Ovvero? Vale a dire, come compreso al termine del film da Chris, che quando non ci si rende conto che <<A volte quando si vince, si perde>> si è spacciati – giacché resistere non in ogni caso è sinonimo di forza, piuttosto di fragilità talmente inseta da inibire il contatto con la propria parte emozionale, l’unica in grado di regalare gioie autentiche. E in fondo forse sono davvero i troppo sensibili che si corazzano dietro ad una posticcia perfezione dal momento che, come suggerisce di nuovo Chris, <<La gente buona finisce all’Inferno, perché non è capace di perdonarsi>>. E non è in grado di essere clemente e farsi sconti in quanto identifica l’io con il cervello.

Eppure il cervello è una parte del corpo come le unghie o il cuore, soltanto che è una specie di voce nella testa – aggiungo! – che impera e progetta aprioristicamente senza ascoltare nient’altro che sterili e freddi calcoli razionali e in tal maniera condanna alla presa di distanza dal sé. Sé in costante trasformazione, negata, se ogni passo prestabilito “a tavolino”. Cervello che è la parte che pensa, ma non fa respira generosità né affinità, condanna invece alla più terribile infelicità.

Giulia Quaranta Provenzano