Oggi abbiamo deciso di condividere con i lettori un singolare racconto breve, per trascorrere un po’ del fine settimana in un mondo altro ed assai distante dal quotidiano – senza tuttavia, probabilmente, riuscire del tutto a distinguere dove inizi il sogno e quale una sembiante di realtà. Questa è proprio la stravagante magia di tale originale penna. Ecco quindi “Ambra”, incredibile parto della fervida e creativa estrosità di Giulia Quaranta Provenzano.

Cosa sarebbe mancato di me? Questo si domandava Ambra. Il dolce e malinconico sorriso, così imprevedibile, ad esplodere su tutto il viso oppure le incontenibili e travolgenti risa, piene e folli, od ancora quegli scatti di rabbia improvvisi a lasciare interdetti ché nessuno riusciva a comprendere delle lacrime asciutte quando la vita non è come nella testa?


Schiena incollata al materasso, lei completamente sudata, la lunga frangia – che pareva posticcia, però non era davvero – appiccicata alle tempie, la giovane donna si sentiva terribilmente inquieta. Non poteva dirne il motivo eppure provava un qualcosa d’indefinibile ad indurla al turbamento più imo e viscerale tanto da dimostrarsi spazientita per ogni più impercettibile rumore ed irritarsi per gli affollati pensieri transitanti nella mente. Mise dunque gli ondulati capelli color fuoco sotto il lenzuolo a righe, pentagramma d’emozioni ed inespresso immaginato e taciuta fantasia eppure mai repressi, tal, negli occhi suoi. Fu allora che, ad un tratto, Ambra si rivide bambina. Anche nell’infanzia aveva sofferto d’insonnia, senza sapere il perché mentre in quell’esatto momento ne intuì la ragione: era sempre stata attanagliata dal senso del nulla. Nulla quale assenza di ogni cosa, assoluta mancanza di realtà o piuttosto qual contrario di “qualcosa”? Era esattamente ciò che stava chiedendo al buio soffitto. Le piaceva il soffittato ora ch’era nero, nero da cui sorge e rende possibile la luce, nero comprendente e nel quale i più svariati toni nostalgici ed appassionate sfumature. Senza escludere alcuna possibilità, la volta quella notte le ricordò un maniero dalle infinite porte. Avrebbe benissimo potuto spaziarvi in largo ed in lungo, senza tuttavia – ne era certa! – trovare il signore della fortezza e la cosa non le dispiaceva neanche un po’ poiché troppe, e acri, sarebbero state le rimostranze con le quali far finalmente capitolare il trono di colui ch’è crudele e vile nell’ostinata noncuranza.

La ragazza dalle pupille cangianti si portò d’istinto la paffutella e piccola mano sopra quelle due finestre nocciola sul mondo e si guardò dentro, nel bisogno d’amarsi e amare. Lei si era dimostrata dalla nascita desiderio ed agonia, tensione esistenziale antitetica tra il cupo e tumultuoso dell’anima agitata in quanto incapace di trovare quiete ed il bisogno di pacificazione. Viandante del dramma dei dì, niente le regalava quell’esaustività chimerica propria del tradito, dell’impossibile da trattenersi fino a farsi ricordo penoso. Non di meno tentò persino in quell’istante di mantenersi equilibrista, punta di piedi a sfiorare il sottil filo della pazzia. Assurda sconsideratezza o genio che non necessita di giustificazione?  

Ad Ambra il tempo pareva non bastare mai, ad ascoltare paure vicine e lontane e pur il silenzio. Accese la celeste lampada, subito dopo la spense di nuovo nel confermare e percepire un vuoto inghiottente. Le dolevano tanto le ossa, ispècie all’altezza del sacro e delle scapole. La gola le bruciava come se vi fosse stato acceso un tizzone arroventato. Ella non aveva timore di morire, non era l’idea della dipartita a farle orrore benché l’irreversibile dissolvimento fosse il più grande spauracchio degli esseri umani. Tutta avvolta nell’indaco veste, s’interrogò dunque se non vi fosse niente, nessuno a tenerla legata all’esistenza tanto da farle scongiurare il suo risvolto a balsamo del cuore. Si alzò dal letto e si sporse dal balcone.

Da pochissimo oltre il davanzale, notò un bagliore improvviso che d’immediato scomparve chissà se in mezzo agli abbracci mancati e a quelli negati d’un freddo giorno frettoloso e superficiale, per ricordare quali all’opposto le radici del vivere. Ambra socchiuse le bianche palpebre, l’incarnato più pallido ancor, e in quella vastità senza confini ch’era il suo capo vide uomini, donne, bambini, anziani abbracciarsi. Donne che stringevano a sé uomini, uomini guancia a guancia d’altri, anziane a baciare piccolini e piccoline, affettuose ed amorevoli carezze dietro la nuca. Mani ad intrecciarsi le loro, mani delicate e confortanti, esperte, mani rassicuranti e forti, mani vogliose dai palmi aperti a dare e non sempre ingordamente ricevere invece. Un vaso senza fondo, argilla a far germogliare le più preziose sementi quei bellissimi e tanto differenti corpi nel non aver vicendevolmente bisogno d’altro se non gli uni degli altri. Una fitta alla bocca dello stomaco la colse – la or detta sospensione s’interruppe in tal guisa. Rientrò in stanza ed esitante si coricò; non voleva ritrovarsi abbandonata presto al ridestato repente morfeico investigar.

Un profumo intenso e luminoso pervase l’assopita fanciulla, come un venticello tiepido che le sfiorò le guance poco prima dolenti per i convulsi contorcimenti di dolore. Non vagamente Ambra intuiva di star abitando un sogno, ciò nonostante non prese in considerazione la possibilità di staccarvicisi. Percorrendo le ciottolate vie d’un paesino sconosciuto dove ancora esistevano botteghe di tappezzieri, venditori di tessuti, sarti e pasticcieri vide un’appartata, solitaria libreria antiquaria su più piani. Tre minuscoli gradini all’ingresso, ad avvisare e rammentare con il timido ed un poco imbarazzato scricchiolio del legno, al curioso visitatore che lì tutto aveva già vissuto molte vite ed era passato tra le dita di persone che non ci sono più e le cui idee, passioni e speranze però ancora vivono e mutano nell’odore della carta vecchia respirato tra gli scaffali. Vi si addentrò entusiasta.

D’appena entrata un’atmosfera magica, ricca di storia, di fascino e di mistero. Di fronte ad Ambra un’enorme scaffale stracolmo di volumi. Non si distingueva quali i libri, la scrivania con sedie e carrelli, quale il bancone e piuttosto pioli e sgabelli per carezzare dorsi, lampadari, lucernai e cupole d’osservatori senza pareti ma ponti e culle di polvere di luna e stelle. Intagli nel noce, intarsi e vetrate, un barattolo di caffè, un piattino con zucchero a cubetti ed un cucchiaino d’argento. Srotolatosi tappeto rosso dalla magnifica scala e la ballerina suola appoggiata alla prima a sdoppiarsi sino a divenir d’organo, tuttavia senza ivi strumento invero, sembiante. La melodia non era mai per tutti uguale, non la medesima neppure in sincronico udir. L’ascolto un’esperienza, esperire soggettivo nell’universale danza stava pensando la conosciuta scrittrice quando, d’un baleno, scorse alcuni gatti, certi uccellini e civettuole sul ripiano a fianco d’un desueto caminetto e, sopra questo, un quadro incorniciato d’oro. Vi si avvicinò, come si avanza verso un magnete invisibile, sfiorò un mappamondo, poltrone, copertine e penne. Alzò lo sguardo inesausto, in continua ricerca, poi una voce le sussurrò <<Ambra!…>>. Per la seconda volta fu raggiunta dall’innocenza aggraziata e soave, quanto sensuale di quell’effluvio morfico e dai pudichi rintocchi del pendolo. L’orologio stava battendo quasi le tre.  

Giulia Quaranta Provenzano