Continuano i contributi scritti di Giulia Quaranta Provenzano, consistenti nell’impegnare questi dì apparentemente uguali l’uno all’altro nella scrittura e lettura d’una specie di diario, di epistole, di testi vari. Ecco che oggi proponiamo un racconto, subito a seguire.

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<<Ricordo che quando ero bambina facevo un sogno assai spesso ricorrente e sempre era così intenso e nitido da viverlo e sembrarmi ogni volta più reale. Un aereo volava sopra il tetto di casa (il tetto ch’era già scoperchiato), precisamente in corrispondenza del terrazzo davanti alla camera da letto dei miei genitori e la loro stanza appunto.

Fwwd, fwwd come un soffio di vento od uno passato in fretta, ma tale no… Sapevo benissimo, con certezza che quello era invece un aereo e avrebbe sganciato una granata come grandine a caduta libera – seppur non la vedessi mai precipitarsi giù: era una sorta d’incombenza invisibile, piombo in pioggia di schegge di dolore e terribile sorpresa. Sotto un surreale sole dai lunghi raggi confusi, in mezzo ad una nebbiolina sottile e meschina, io e la mamma. Noi due, anime a metà tra l’azzurro del cielo ed il bigio cenere del ritorno.

A distanza di tanti anni non so più i discorsi, se ve ne fossero stati invero, però non posso dimenticare quella strana ed indicibile sensazione di vicinanza e d’apocalittico a premere nel petto, sopra il capo ed una sorta di singolarmente remissivo senso d’incontrovertibilità quasi fosse tutto dall’origine inevitabile ed, anzi, qualsiasi occorso ed occorrente “naturale”. 

  Le immagini, la volontà hanno un poco sbiadito nel tempo il preciso e severo ricordo in visione sfumata ma non il provato, e non erro o mento nell’affermare che mi risvegliavo immancabilmente nel momento in cui con mamma stavamo per abbracciarci, sedute sul materasso dalla parte di papà. Allorché ciò accadeva, quando tale era l’ultima scena prima di aprire gli occhi, sino alla fine della giornata mi portavo addosso il peso di un’ultimamente inspiegabile oppressione in petto e nella mente. Malessere fisico innanzitutto e vibrante altresì su ciascuna corda del pronosticare nervoso.    

Ormai, adesso giovane donna, parecchie settimane fa mi sono svegliata assalita dalla medesima percezione di epocale, di memorabile qual Cassandra preveggente di orribili sventure. Inaggirabilità imminente, importante ed imprevista catastrofe a segnare un’epoca di rottura; solo non distinguevo e non sapevo ancora bene dare un nome al perché.

Il presente nostro appena trascorso, un inverno mancato e difatti nel prato, sotto l’argenteo ulivo, un manto di coloratissime margheritine in pieno dicembre, gennaio, inizio di febbraio. Bianchi, rosati, lilla petali delicati e violette, precoci maggi fucsia addirittura. Anche per strada e nei dimenticati angolini silenti ai lati e a ridosso di muri a secco diroccati, agli ingegnosi e tenaci terrazzamenti color della terra a cui legati. Poi d’improvviso il freddo, dalla volta lacrime di coccodrillo e raffiche rabbiose ed insistenti. La gente non voleva pescare da armadi che cambi di stagione non hanno quasi visto né conosciuto e le persone hanno cominciato così a raffreddarsi, ad aver mal di gola, tosse, influenze. Bimbi avvolti da coperte, genitori disperati a non sapere a chi lasciarli in quanto a lavoro non sia detto che non si vada. E sì, non di meno dopo i figli anche i genitori hanno iniziato a sentirsi poco bene tuttavia a ripetere, sciocchi e testardi, di aver preso soltanto il ritardatario malanno annuale dai pargoletti – “(…) i figli so’ pezzi ‘e core” quindi non ci si deve lamentare e dopotutto un po’ di riposo, un breve stop dalle corse quotidiane di routine non ha mai fatto male a nessuno, non guasta …Peccato che i termometri in molti, troppi casi non ci hanno pensato minimamente a ritornar timidi ed il rosso prepotente a scusarsi e ritirarsi per la folle furia del mercurio impazzito, toro dinanzi al drappo d’un imprudente ed anch’egli crudele e sventurato torero. 

Il respiro affannato, ogni tentata boccata d’ossigeno parimenti, come ad aver una spada conficcata nella faringe e nessun antidoto per un’impresa titanica, fuori dall’extra-ordinario, per le imboscate d’un nemico che non si scorge con la vista, si sente però ed è maggiormente subdolo. Un avverso questo odierno che riduce i pensieri ad aquiloni strappati e fa crollare le torri dei più imi segreti, dei superficiali sospiri ad anelar prima ali d’Icaro ma non il disperato bisogno e voler carezze.

Racconterò infine di un’altra fantasia onirica, che ancora non so se troverà giammai riscontro.

L’altra sera avevo un forte mal di testa, a martellarmi tempie e nuca, fino a costringermi ad abbandonarmi presto a Morfeo. Nella temporalità distorta ed in larga parte cessata del REM scorsi quattro enormi e bellissimi bauli. Erano in legno massiccio, di noce scuro, che nonostante la loro preziosità se ne stavano senza superbia appartati all’ombra della distrazione altrui. Io scelsi però di attingere da quel fondo di sapori, odori, voci di anni sconosciuti a ricordarmi d’esser e mantenermi umile ché nessuno esiste e trova luce da solo. Non riesco a razionalizzare il motivo della sicurezza per cui quelle grandi casse, a rammentarmi valori, son sicura fossero i miei nonni eppure ne sono certa ed ispècie dopo che si trasformarono in strette ed altissime finestre a dar accesso ad una bidirezionale vista più ampia e profonda non appena varcate.

Ridestatami un attimo prima dell’alba, con l’anima corsi proprio agli avi e mi fu chiaro d’un colpo che in un periodo buio, bombardati da dati a riempire grafici e tabelle, non v’è giustificazione alla sofferenza e che i numeri non restituiscono né danno il senso a ciò che mai nessuno potrà neppure lontanamente quantificare ovvero l’inestimabile valore degli affetti, quegli affetti che dell’amore hanno e sempre conserveranno il senso. Cura, generosità spontanea e disinteressata, attenzioni delle quali i nonni per primi e tanto sono stati motore.     

Alcune persone, chissà, moriranno senza comprendere mai cosa significhi ESSERE UMANI, cosa significhi il termine più abusato e distorto dall’origine del mondo ma che è universo per poeti, pittori, artisti dei quali altresì speciale e vitale scintilla. Mi auguro comunque che non sia il vostro caso, miei lettori.   

L’eredità mia sia un frutto dalla semente feconda, parole che possano colorare e riscaldare gli spazi fra i secondi e rivelarsi ponte dell’essenziale poiché al termine del percorso non è la meta quel per cui vale la pena aver vissuto bensì il tragitto e quell’impalpabile a continuar a germogliare nel cuore di chi ci ha conosciuto e voluto bene>>.     

Giulia Quaranta Provenzano