Il tentativo di raccontare Raffaello deve partire dalla fine, e tentativo rimane comunque. Senza
retorica, senza superlativi, perché le creazioni di certo ingegno necessiterebbero di poche
didascalie. Sono, punto. Capitano poi gli incroci del calendario, gli anniversari e le
impalcature per celebrarli, le ricorrenze e il tempo presente: il 6 aprile 1520 il trentasettenne
Raffaello di Giovanni Santi da Urbino moriva nella Roma di Leone X Medici, cantiere del
Rinascimento più compiuto.

L’anniversario, annunciato da tempo e così importante da creare un anno eponimo – “2020
anno di Raffaello” – incrocia però questo 6 aprile di pandemia, di tensione e sofferenza: un
tempo sospeso, quando non drammatico, letto nei romanzi, registrato dalla storia ma, per tutti,
lontano da ipotesi di realtà. Nel mondo dell’istruzione, l’anniversario incrocia un 6 aprile di
didattica a distanza, quindi di rimodulazione nei modi e nei tempi della consuetudine
scolastica. Così, quel tentativo di raccontare Raffaello passa, reinventato, tra le maglie strette
della videolezione, escogita la passeggiata virtuale per le Stanze Vaticane e per le sale della
mostra alle Scuderie del Quirinale – chiusa ma ancora in corso, somministra su “classroom”
un compito di realtà perché i ragazzi acquisiscano competenza. Ma di cosa? Di Raffaello e
dell’invenzione della bellezza? Non se ne ha certezza neppure quando ci si incanta di fronte
alla Scuola di Atene, difficile sperarlo in questa situazione. Eppure, proprio questa situazione
può fare la differenza.


E allora partiamo dalla fine a dire di Raffaello, della morte e dei 500 anni, dell’impresa di
veicolarlo attraverso la didattica a distanza. Raffaello è tutto lì, nell’epitaffio inciso sul
sarcofago classicheggiante al Pantheon che ne racchiude le spoglie: “… lui vivo la grande
madre di tutte le cose temette di essere vinta, lui morto di morire con lui”. Raffaello è questo:
è l’inventore della bellezza intesa come perfezione formale nell’imitazione della natura, è il
pittore della grazia interpretata come bellezza filosofica, capace cioè di superare le inevitabili
imperfezioni del mondo, è l’ideatore di “quella maniera che noi vogliamo chiamare moderna”.
Chiudiamo il climax con Vasari, che usa l’epiteto “moderna” per spiegare ai suoi
contemporanei di fine ‘500 che quella “maniera” è nuova, cioè mai vista e destinata a rimanere
un esempio, costruendo senza troppa fatica il mito dell’artista dotato dalla natura di grazia e
amabilità quasi sovrannaturali.

La didattica a distanza prova a trasmettere questo: le immagini e gli strumenti per
decodificarne il messaggio, ma anche la forza di un linguaggio più ampio che richiama
energicamente le idealità più alte e i sentimenti più forti. Come riescono i pochi paradigmi di
bellezza non sottoposti alla frustrazione dei tempi e delle mode. E lo deve fare attraverso un
veicolo non consueto di ricezione e di rielaborazione, orfano dell’empatia atmosferica della
classe ma che, proprio in questo tempo, può diventare una competenza acquisita insieme alla
consapevolezza della realtà storica che ciascuno di noi vive ed elabora in maniera differente.
Forse è proprio questo il momento in cui la bellezza può essere rinforzo, senza ambire in
maniera abusata e prosaica “a salvare un mondo” seriamente compromesso dalla malattia e
dalla crisi economica. Si racconti anche così Raffaello, nel suo anno eponimo e nella grazia
inarrivabile della sua pittura, come un’occasione di balsamo per l’animo afflitto di questi
tempi.

Manuela Bonadeo – Docente di storia dell’arte Liceo “G.Peano” Tortona