Angelo Marenzana

Angelo Marenzana

Angelo Marenzana, nasce ad Alessandria nel 1954 e si laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università di Genova nel 1980. Dal 1978 è funzionario presso l’Agenzia delle Dogane, si trasferisce a Domodossola dove vivrà per vent’anni appassionandosi alla montagna, facendo attività come giornalista pubblicista (Direttore Responsabile del mensile La Rivista Ossolana e della fanzine Pucianiga) e occupandosi di eventi letterari, pittorici e cinematografici.  Nel quadriennio 1996-1999 veste i panni dell’Assessore alla Cultura della Provincia di Verbania legando il suo nome a iniziative letterarie quali Il Lago Giallo, La Fabbrica di Carta. In qualità di scrittore-doganiere, esordisce con il volume Frontiere nel 1999, dal 2000, con il suo ritorno in Alessandria, sceglie di dare libero sfogo al desiderio di scrittura, esplorando il mondo della narrativa di genere (giallo noir thriller fantastico) e si ritaglia uno spazio e un ritmo quotidiano compresso tra lavoro e famiglia.

Lo abbiamo incontrato per un intervista, queste le sue risposte alle nostre domande:

Chi è cosa fa nella vita e dove vive Angelo Marenzana?

Vivo tra le nebbie invernali di Alessandria (anche se non ci sono più le nebbie di una volta) e l’umidità soffocante della sua estate. Orgoglioso di fare parte della schiera del segno zodiacale più noir, lo scorpione, indicato come quello delle grandi passioni, della morte, del tradimento e della vendetta. Ma credo ci sia un eccesso di letteratura in tutto ciò, visto che non mi riconosco in tale personalità, e per il fatto che tiro a campare con un’esistenza assolutamente normale vivendo grazie a uno stipendio da funzionario dell’Agenzia delle Dogane. Per il resto mi diverto a narrare storie. E lo faccio quasi sempre in compagnia di un paio di splendidi “bastardoni” (detesto la parola meticci, incroci, e quant’altro ci si inventa con la logica del perbenismo verbale). Ovvero i miei cagnetti. Sono sposato con Olga e ho un figlio di ventitre anni, Anthony. Nonostante le complessità del vivere quotidiano (divise tra il lavoro e le necessità di casa e famiglia), la scrittura ha trovato una sua collocazione ormai consolidata grazie ad un ritmo quotidiano (anche per un tempo breve ma costante) e al fatto che moglie e figlio mi sostengono e mi incoraggiano, pur con un discreto uso dell’ironia. Nel caso di L’uomo dei temporali, Anthony e amici suoi hanno confezionato un bel booktrailer su Youtube che invito a guardare.

8 L'uomo dei temporaliChi è per te uno scrittore e come pensi venga visto dalla gente?

Chi scrive lascia una traccia di sé grazie alla parola vergata. Per molti la traccia è solo una striscia di inchiostro sulla carta destinata a sbiadire con il tempo. Per pochi, e questi li possiamo definire scrittori, la striscia di inchiostro si libera dalla gabbia del tempo per guidarci nel mondo delle emozioni. Aiuta a comunicare un senso di appartenenza del lettore alla storia narrata, alle atmosfere descritte, agli accadimenti. Sa accomunare le riflessioni sull’esistenza. Rende protagonista il lettore indipendentemente dal periodo storico in cui lo inquadra. E’ capace di interpretare l’animo umano. A differenza di altre forme artistiche, la scrittura e la musica sono forse le più vicine al grande pubblico, perché la loro diffusione, anche a livello amatoriale, vengono praticate con grandi aspettative. Le frasi “scrivo anch’io”, oppure l’ho fatto o lo farò sono molto frequenti.

Com’è nata in te la passione per la scrittura e cosa provi quando scrivi?

Ricordo che fin da bambino giocavo allo “scrittore”. Non so perché. Non conoscevo nemmeno l’alfabeto. Però mi sedevo a un tavolino alto una spanna da terra fatto da mio nonno, e pasticciavo (a mo’ di righe di scrittura inventata) fogli di carta che mi passava mia madre. Ho sempre pensato che avrei fatto lo scrittore da grande, e, una volta diventato grande (per coerenza con la certezza) non ho mai scritto una sola parola che andasse oltre la lista della spesa. Nemmeno le malinconiche poesie da adolescente. Anzi, l’idea mi ripugnava. Leggevo, e basta. Poi a trent’anni ho incominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche (mi sono pure iscritto all’inutilissimo albo dei pubblicisti), ma scrivere di cronaca è altro rispetto alla narrativa. Poi, poco dopo i quarant’anni, in veste di organizzatore di un corso di scrittura (inserito in una più ampia rassegna letteraria) mi sono lasciato andare nella stesura di un racconto. Il primo. D’impulso. E’ rimasto a vegetare nel cassetto, e, nel buio del tiretto, rafforzava la mia idea che sarei sempre diventato “scrittore” (insieme alla pubblicazione del mio secondo racconto finito in calce al Giallo Mondadori che mi aveva dato una bella sferzata di energia). Poi, quello stesso racconto, è stato trasformato in un breve romanzo pubblicato nel 1999 con un discreto successo dall’editore Mobydick di Faenza. Titolo: Frontiere. Ma è solo dal 2002 che la scrittura ha incominciato a occupare la mia giornata come una compagna di vita. Sintetizzando, credo si sia trattato di un desiderio innato. E che, per fortuna, sono riuscito a realizzare. Niente di più. Come si potrebbe desiderare una qualunque cosa e ci si ostina ad affrontare un percorso perché sappiamo che alla fine troveremo ciò che si cerca. Un percorso che alla fine si traduce in tanta fatica ma anche in un grande senso di libertà.

Come nasce quello che scrivi e su cosa ti piace scrivere in particolare?

Non seguo regole precise. Parto quasi sempre da un’idea la più coinvolgente possibile, una parola o un’immagine capaci di affascinarmi. Poi sviluppo le prime pagine inserendo elementi che solo in seguito troveranno una maggior definizione. Il tempo mi aiuta a perfezionare la trama. L’unico precetto che cerco di rispettare, è di scrivere, anche poco, tutti i giorni. Mi serve a mantenere il ritmo, a essere partecipe a quanto sto raccontando. A non dimenticarmi che sto modellando una creatura. A non dovermi fare in quattro per riprendere il filo. Rileggo spesso e volentieri la parte di testo già scritto, e sempre con la maggior attenzione possibile. Credo che nel proprio lavoro uno scrittore debba sempre tenere vivi un paio di concetti fondamentali. Primo, come un attore, deve saper interpretare parola dopo parola i vari ruoli imposti dalla narrazione. Secondo, come fanno gli sportivi, tenersi in allenamento con la parola scritta per poter affrontare le gare importanti. Come, per esempio, riuscire ad arrivare fino in fondo a un romanzo che sia emozionante, convincente e coinvolgente. Da lettore mi affascina in modo particolare quella che viene etichettata come letteratura di genere. Giallo, noir, horror. E da scrittore mi guida di più l’idea del mistero da svelare e riprodurre le atmosfere della storia passata.

5 nebbie d'agostoHai scritto:  Frontiere, Destinazione Avallon, Legami di morte, Buchi neri nel cielo, Nebbie d’agosto, Tre fili di perle, I Cavalieri dalle lunghe ombre, Occhi di panna  e Ora segnata, ce ne vuoi parlare?

Frontiere è stato il mio esordio. Racconta la storia vera (perché l’ho incrociata nel mio lavoro in frontiera) e rielaborata senza sfuggire dai binari del vero (per mantenermi nei canoni della narrativa), di un giovane corriere colombiano di droga. Con Buchi neri nel cielo e I Cavalieri dalle lunghe ombre tento di esplorare il senso di estraneità dalla realtà di chi ha scelto di vivere una parte degli anni settanta illuso da una prospettiva da terrorista e costretto, vent’anni dopo, a tornare in Italia dopo una lunga e solitaria clandestinità. Tutti gli altri romanzi invece trattano di quel periodo storico a me molto vicino, ovvero il trentennio che va dalla fine della prima guerra mondiale fino al 1948.

Nel 2013 hai scritto L’uomo dei temporali. Chi è?

L’Uomo dei temporali arriva nei giorni di siccità, prende dei rami secchi, accende piccoli roghi votivi, recita parole magiche e aspetta la pioggia. E’ stata sicuramente, almeno negli anni della civiltà contadina, una figura tra il leggendario e il reale. In modi differenti è stata una cultura trasversale delle campagne dal nord al sud Italia. Nel romanzo assume un valore simbolico. Siamo nel settembre 1940, e la guerra propagandata come una passeggiata in realtà assume una dimensione diversa, e così L’uomo dei temporali veste gli abiti di un personaggio che ha gli occhi fissi su un’epoca ricca di chiaroscuri, dove si sta per scatenare un acquazzone capace, come dice lo stesso Bendicò, di “lavare  i ricordi della guerra ma anche le coscienze di chi ci aveva creduto”.

Ci vuoi parlare del romanzo?

La trama si sviluppa nel settembre del 1940, tempi “roventi” per via di un regime oppressivo, di ideologie contrapposte, ma soprattutto a causa di una guerra contrabbandata come una passeggiata, con il Duce seduto al tavolo dei vincitori a spartirsi l’Europa in compagnia dell’alleato nazista. Ma in realtà il conflitto da subito macina morti e danni seri all’economia trascinando la nazione sull’orlo del baratro. In questo contesto, il commissario Augusto Maria Bendicò si trova a indagare sull’omicidio di Onofrio Scipioni detto Dede, un criminale di mezza tacca, un’inchiesta che lo porterà a ficcare il naso tra i reconditi segreti di una città di provincia come Alessandria. Bendicò (il cui nome è preso in prestito dal segugio di razza del Principe di Salina nel Gattopardo) di origine siciliana, è un uomo riservato, di poche parole ma dotato di grande ironia. E’ancora prostrato per la morte recente quanto improvvisa della moglie. Vive un profondo distacco con i colleghi questurini così come pure con i superiori. Si muove al fianco di due personaggi, il brigadiere Rizzo, fascista convinto e rigoroso, e il medico legale il dottor Silvera di stampo socialista. Sono due comprimari all’opposto tra di loro, non si incontreranno mai, e permettono al commissario di confrontarsi con i dubbi e le certezze dell’epoca, e con lo scorrere degli eventi storici che fanno sempre da sottofondo. La peculiarità di Bendicò è il suo netto rifiuto della guerra, dopo aver vissuto il dramma del primo conflitto bellico che, nel romanzo, ritorna con alcuni prepotenti flashback. Ed il trauma della guerra è il motivo per cui, con la dichiarazione del 10 giugno, si sentirà più distante dall’ideologia del regime. Per raccontare tutto ciò ho aperto uno scrigno di ricordi. Una collezione di chiacchiere. Nulla di letto sui libri. Ho avuto una famiglia alle spalle che ha saputo fare da ponte tra me e la città di Alessandria, dove si svolge la storia narrata nel romanzo. E’ stata una famiglia che, tutta, ha vissuto con intensità e drammaticità quegli anni. E poi vanno aggiunti amici, conoscenti, vicini di casa, abitanti del quartiere che hanno avuto la capacità di trasferirmi oralmente piccoli e grandi eventi. Gli anni della mia infanzia sono ancora di quelli vissuti nelle case di ringhiera con la gente nei cortili che parlava, raccontava, ricordava, faceva riemergere aneddoti, esperienze dure marcate con l’ironia tipica della zona, dolori, gioie, rancori di un epoca segnata ancora da profonde ferite molte della quali non ancora rimarginate oggi giorno. E mille profili di personaggi. Si tratta di un vero patrimonio cui ho voluto dare una veste letteraria.

Stai già scrivendo il tuo prossimo romanzo, ce ne puoi parlare?

E’ il seguito de L’uomo dei temporali. Un anno dopo, inverno del ’41, sullo sfondo la guerra di Russia. Il commissario Bendicò dovrà fare i conti con un nuovo di omicidio, un caso aperto ma immediatamente chiuso perché il presunto colpevole è a portata di mano della giustizia. Ma Bendicò ha buone ragioni per non crederci e così testardamente vuole arrivare alla verità vera.

Quali sono i tuoi scrittori preferiti?

Amo la letteratura francese. Lo Straniero di Camus mi ha segnato la strada come lettore già all’età di 16 anni. E che dire di Villon, Maupassant, Simenon, fino a Izzo, Manchette, Hélena, giusto per citarne qualcuno e dimenticandone cento. Ciò che mi accomuna a loro (usando questo termine improprio) è l’atmosfera di cui questi romanzi si nutrono. Un elemento letterario che trovo meraviglioso quanto essenziale. Poi ci sono gli autori italiani, una schiera sempre più nutrita e di qualità. Poi basta, perché il tempo è poco e non si arriva ovunque.

Come vedi il presente e il futuro della cultura nel nostro paese?

Siamo talmente intrisi di “cultura”, dal più piccolo borgo di montagna fino alla grande capitale che quasi non ci rendiamo nemmeno conto della ricchezza che possediamo. Però, la cosiddetta “cultura”, è fuori di noi, nell’architettura, nella pittura, nei beni artistici urbani, nell’archeologia come nei beni naturali, nell’artigianato fino alla gastronomia. Ma la consapevolezza non è dentro di noi al punto da saper rispettare tutto ciò. Siamo degli osservatori o dei freddi studiosi e non c’è un vero trasporto verso questo patrimonio. Oggi, una laurea in storia dell’arte, anziché essere un passaporto per il futuro è la laurea dello sfigato. E tutto ciò non mi fa ben sperare, soprattutto in un momento in cui lo stato di abbandono e di crisi dei nostri beni rende urgente la soluzione del problema. Ma tutto ciò cade proprio nel momento di maggior confusione e incompetenza della nostra politica, e in una fase di abbruttimento dei nostri comportamenti sociali.

Un scrittore come immagina la politica e che cosa vorresti chiedere ai politici?

La politica deve essere novità, cambiamento continuo. Le regole vanno modificate di volta in volta, come un abito che si adatta al cambiamento del corpo e sa dare dignità alle diverse età del soggetto. I politici devono nutrirsi di idee innovative per sganciarsi dagli stereotipi, e non restare impantanati nei comportamenti da prime donne. Vorrei che evitassero la comunicazione da spot pubblicitario. Ciò permette di gestire la storia del presente e, come nel caso di tanti narratori di fantascienza, aiuta a immaginare un futuro, a dargli un profilo, un progetto. Quello che magari si chiama speranza.

Dal 1996 al 1999 sei stato anche Assessore alla cultura della provincia di Verbania, che cosa ti ha insegnato questa esperienza?

A stare a stretto contatto con i problemi e con i bisogni della società, di una comunità tutta, a conoscerli e riconoscerli nel loro insieme. Poi la personalità e la capacità dell’amministratore permette di risolverli. Quello che manca oggi è questo secondo passaggio.

Qual è la tua opinione sulla situazione di Alessandria?

Soffre di un problema generale tutto italiano. Incapacità di cambiare per colpa di una certa disonestà intellettuale, perché chi dovrebbe fare un passo indietro non lo fa, e chi lo dovrebbe fare in avanti ha paura. Questo produce un arroccamento su cose vecchie e stantie solo perché come comunità alessandrina siamo incapaci di vedere le stesse cose magari attraverso un diverso punto di vista. Alessandria è soffocata dalle regole e stremata da tasse, imposte e sanzioni. Come primo passo bisognerebbe pensare a un piano triennale per liberarci da mille catene senza avere timore ad affrontare un diverso modello collettivo. Questo vale per il commercio come per la normale gestione degli spazi urbani.

Che consigli ti senti di dare ai giovani che iniziano a scrivere?

Di intrecciare rapporti con altri autori, confrontarsi, lasciare da parte la presunzione, leggere, ascoltare le critiche, partecipare a presentazioni di libri. E proporre in lettura i propri testi a professionisti di cui ci si fida.

Programmi per il futuro e sogni nel cassetto?

Ancora due romanzi con Bendicò protagonista perché il mio commissario ne avrebbe ancora da dire e da fare. E dopo, forse, una bella storia che mi aleggia in testa da tempo, di ampio respiro. Magari con un taglio epico.

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Pier Carlo Lava


5 febbraio 2014