Quando si accosta il libro di Mauro Francesco Minervino vien voglia di nasconderlo in uno scrigno aureo e lì custodirlo. Si diventa gelosi. Lo si vede come il basamento sul quale poter edificare una fortuna: libro segreto, maestro segreto. Trovato. Non si vuole parlare. Si vuole tacere. Persino l’editore pare aver avuto consimili sentimenti nei confronti di Minervino, se ha dato alle stampe un rettangolo dai lati di pochi centimetri. Quasi non si nota. Ciò nonpertanto, le valve della conchiglia, una volta dischiuse, serbano un diamante.

Minervino è Professore di Antropologia Culturale ed Etnologia. Ovvero bellezza, poesia Mauro Francesco Minervino la insegna di mestiere. Perché poesia non è scrivere: è piuttosto educazione al bello, sensibilità al bene. C’è del bene e della bellezza, questo ci dice la grande letteratura, anche in mezzo alla più cinerastra disperazione. Una via di luce possibile. Perciò, Minervino come Professore di Antropologia Culturale e di Etnologia insegna poesia, insegna a orientarsi al bello; e in Viaggio al monte analogo questo si percepisce.


Il Monte Cocuzzo protagonista assoluto di Viaggio al monte analogo viene introdotto come montagna-arca. Nella quale si conserva pace e bellezza in mezzo ai diluvi universali della quotidianità. Ma arca anche di memoria: dove gli aneddoti fioriscono su una dolina, o spuntano da un costone, o adornano una forra. Come per Giufà o l’Acheronte; anche se più spesso gli elementi folcloristici, a onor del vero, rimangono ombre di mezzo le faglie transpressive dell’arca in forma di montagna inclusa nell’Appennino Paolano ubicato nel distretto di Cosenza. E il Monte Cocuzzo, e qui entriamo in un terreno squisitamente filosofico, ancorché potentemente poetico, Minervino non lo divulga come il Monte Cocuzzo delle mappe; ne parla piuttosto come di elemento pesaggistico inserito in una geografia dispiegantesi in interiore homine. Si capisce, anche da queste scarne  righe, si potrebbe mettere insieme, sulla duplicazione platonica evocata dall’aggettivo “analogo” osteso nel titolo, oscillando tra i parallelismi, peraltro indicati con chiarezza dall’autore stesso, del Monte Cocuzzo, del Sainte-Victoire di Cèzanne e del Monte Analogo di Renè Daumal, sorta, quest’ultimo, di montagna atlantidea popolata da genti provenienti da tutti i luoghi e da tutti i tempi (immagine con ogni probabilità irresistibilmente ghiotta per palati di antropologi ed etnologi), si potrebbe mettere insieme, dicevamo, solo su un aggettivo, l’aggettivo “analogo”, una corposa quanto diuturna opera saggistica.

Viaggio al monte analogo trasmuta la pietra in inchiostro. È avvincente avventura linguistica: e meraviglioso avvenimento del linguaggio. Nondimeno, è, nella forma di reportage, benché di sostanza poetica, breve afflato. Non una montagna di parole è occorsa all’autore per trasferire su carta una montagna reale. E tuttavia, Viaggio al monte analogo di parole è un concentrato, quasi ubriacante. La sua prediletta isola di pietra Minervino sembra averla intagliata a perfezione, fino a ottenerne clasto di lucentezza adamantina. 

Marco Candida