Alberto appena quattordicenne s’immerge nella pittura, attratto dall’arte figurativa di Giuseppe Pelizza, dopo aver visitato l’atelier di Volpedo.

I suoi primi lavori, purtroppo, sono andati quasi tutti perduti, tuttavia la critica lo affianca alla pittura divisionista per la forte impronta lasciata dal suo ispiratore: quasi una riconoscenza.


Con l’iscrizione all’Accademia Albertina di Torino, frequentata fino al venticinquesimo anno d’età, ottiene insegnamenti davvero ragguardevoli, non convinto di questo, è a Milano presso l’Accademia di Brera specializzandosi nella figura.

Costì è allievo di Cesare Tallone, di Giacomo Grosso, anche loro piemontesi i quali lo accolgono con ragguardevole disponibilità.

Il decennio successivo, 1920÷1930, predilige i colori brillanti i cui soggetti sono le campagne della nostra periferia, colta dall’ispirazione avuta nell’osservare i lavori di Antonio Fontanesi, Luigi Onetti ed altri.

La sua abilità, nel ritrarre la figura umana, è dimostrata dai ritratti richiesti da personaggi illustri a quel tempo, non solo alessandrini.

Il passaggio successivo è un distacco dall’epoca trascorsa, il suo pennello è sostituito dalla spatola, successivamente varia i colori della prima tavolozza, acquisendo toni tendenti al grigio, spenti, un tipo di pittura malinconica, definita dalla critica periodo di Roccaverbena ove anche il disegno assume una certa austerità, con la decisione netta d’abbandonare la figura umana.

Il suo studio è nella nostra città, in via San Lorenzo, quando un bombardamento lo distrugge: insieme ai muri, anche i quadri subiscono danni ingenti, se non irrimediabili perdite.

L’ultimo periodo della sua esistenza è come una rivalsa, eccolo a presentare opere alla prima maniera, cercando in esse la memoria del tempo passato.

Espone alla Promotrice delle Belle Arti di Torino per una quarantina d’anni; contemporaneamente alla Biennale di Venezia nel 1934 e nel 1936.

                                                                                 Franco Montaldo