Il 26 agosto di settant’anni fa venne a mancare suicida uno dei più importanti autori della letteratura italiana del Novecento, Cesare Pavese. Nato a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908, solo ed inquieto si spense quarantadue anni dopo in un’afosa notte torinese.

Non tenterò qui di fare un riassunto della sua biobibliografia: per questa ci sono volumi e Internet forse più agevolmente a disposizione. Ciò che ci tengo, invece, a condividere sono alcune riflessioni sul peso di una coerenza che troppo spesso taluni cercano di mantenere nella forzosa serietà di una vita nella quale non viene ammesso null’altro eccetto l’ineluttabilità di doversi dimostrare adulti posati, e razionali …come se tutto quel che eccede la ratio fosse peccato.


Quanto personalmente all’opposto mi affascina moltissimo di certi preziosi scrittori è la loro solitudine, quella dolorosa inquietudine degli individui senza tempo che sono di continuo in lotta con l’istinto e la natura, alla ricerca di un al di là e di un oltre all’imperativo e ad un (chissà se) apparente ordine che li schiaccia ma che eppure non smetterebbero mai d’accarezzare ricercando ed esplorando.

Adoro le anime in incessante moto, pur restando immobili; spiriti che vorrebbero essere liberi e che tuttavia si scontrano con un quotidiano dal quale non riescono a staccarsi invero perché è sempre il reale il dato da cui partono – com’è inevitabile – per le proprie fantasie agli antipodi. Questi autori mi rimangono nel cuore, lirici in maniera brutale, e polverosi poiché dimenticati dai più a causa della drammatica simbolicità a farne capri espiatori del frettoloso quindi perciò tanto, ancor più, scomodi. Tragico è il silenzio che li circonda, riverbero di disimpegno altrui. Intimità lacerate, specchio di fratture e distorsioni esistenziali che è difficile (se non impossibile) ricomporre giacché l’etica, e motivazioni sociali, fanno sprofondare nel cupo sentirsi sbagliati.     

Non un’interiorità davvero rude o animalesca, a mio avviso, quella degli autentici Artisti. Piuttosto, a corazza di fragilità, di primo acchito spigolosa negli affetti. Lo comprendo però. È logorante avere l’impressione di non riuscire a far nient’altro che ubbidire ad un destino non aggirabile, incastrato nei cicli della storia nella quale non si riesce a trovare se stessi – sé disilluso (e non meno, in segreto, speranzoso fino all’ultimo) e sensualmente tormentato “tra rossori improvvisi e risate sommesse”.  

L’attesa, la compagna di un’intera esistenza per quanti? È lecito pensare per l’umanità, senza eccezione alcuna? Per qualcuno grave e sofferta sino allo sfinimento. Aspra e disonesta, sul fondo raschiato di un abisso che si chiama truce malinconia del perduto in sere che uno sconosciuto van Gogh avrebbe dipinto del giallo dei suoi girasoli se una differente temporalità e animo gli fossero stati concessi?

Sapore sacrificale ha il pianto taciuto dei folli, non della folla. Passionale è ogni battito represso, di creazione e distruzione, di necessità di respirare e bisogno di morire per rinascere (ancora sfortunato? Maledetto?). Struggente è lo scarno nel piatto del romanticismo velato, d’un disperato e pazzo amore per il non ricambiato che mal non si è scelto a fiele e veleno di coordinate spazio-temporali che corrono sui binari d’uno sfuggente fato per gl’integri, che si spezzano dentro. Ima, profonda percezione di vuoto nel menzognero stordimento. Mancanza d’un senso, attivo, per loro (per me). 

Giulia Quaranta Provenzano