Dolente constatazione, ma in “Furore” Steinbeck non è dalla parte della famiglia Joad. E’ contro di loro, dall’inizio alla fine. Sconvolgente, ma così è. Siamo noi a riscrivere un po’ tutta quanta la vicenda, mentre leggiamo. A considerarla con occhi diversi. No, in seno all’inferno pietoso approntato da Steinbeck per i suoi personaggi, i Joad se la meritano, la sventura che gli piomba addosso, è giusto così. Forse, per capire come stanno le cose, è necessario, per una volta, raccontare questa vicenda dalla fine risalendo al principio.

Ecco che cosa traduce Carlo Coardi dall’ultima riga del romanzo di Steinbeck: “Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente”.


Già, “misteriosamente”, traduce Coardi. Infatti, che cosa mai ha da sorridere Rosa Tea, avendo “ella” appena dato alla luce, all’interno di un carro bestiame, un bambino morto? Oltretutto, mentre l’abitazione dei Joad (il carro bestiame, appunto) stava per essere travolto da un’ondata d’acqua e fango a causa di un violentissimo nubifragio… Cosa c’è da sorridere? Nulla. Rosa Tea si stende accanto a un uomo morente, uno sconosciuto, all’interno di una stalla e gli offre come tentativo estremo di tenerlo in vita il latte che ha nelle mammelle. Questo è un compimento: dal carro bestiame alla stalla Rosa Tea s’accoccola sull’uomo morente per fargli suggere quel poco di latte che ha trasformandosi definitivamente in bestia. Rosa Tea è una mucca in una stalla. Compimento estremo, appunto, dato che i Joad sono bestie dal principio, dalla prima pagina. Approdano dopo tanto patire in una piantagione di cotone e qui, a Tulare, tra i vari accampamenti hanno il privilegio di abitare un carro bestiame. Questo carro è riparo dalla pioggia, e calore: par quasi una reggia rispetto alle tende degli altri braccianti intorno. Qui i Joad lavorano e riescono a vivere anche decentemente. Con i cents che guadagnano possono comprarsi al dispaccio la carne, il pane, lo zucchero, il sale, la polenta… e metter via qualcosa per la benzina, quando ci sarà da spostarsi. Solo che questo avviene in un carro bestiame. E non può non significare qualcosa di molto crudo – specie dopo tutto quello che è già accaduto nel corso della narrazione. Anche perché l’autore di Uomini e topi attacca ben due capitoli ponendo subito all’attenzione del lettore la faccenda dei carri bestiame. Ma almeno qui, in questa piantagione, a Tulare, non è stato come a Weedpatch, un campeggio dove c’era anche l’acqua calda, e ci si poteva lavare ogni giorno, ed era un accampamento governativo, per questo c’erano più comodità, ma anche dove a questi conforti corrispondevano insidie, si voleva organizzare un gran ballo, e mandare un agitatore, per ingaggiar rissa, e far scendere il salario da 5 a 2,5 cents, e per fare arresti che avrebbero fruttato denaro per le casse dello sceriffo. In più, secondo gli anziani della famiglia Joad, Weedpatch era un luogo di peccato, pieno di peccatori. Questo ha la sua importanza per una famiglia che viene dall’Oklahoma, e che si è vista via via che si viaggiava i suoi componenti morire come moscerini o scomparire nel nulla come uno dei fratelli, Noé. E’ stato, infatti, tutto uno sposamento a bordo di un autocarro stipato di masserizie. Dall’Oklahoama alla California, in cerca di lavoro. Lungo la Route 66. Tom Joad, il padre, la madre, il nonno, la nonna, Ruth, Winfield, il predicatore Casy, Noè, Al, Rosa Tea… Tutti che si spostano in California, tremila chilometri.

In Oklahoma non si può più stare. Una tempesta di polvere ha rovinato i campi, e le società proprietarie dei terreni hanno mandato le trattrici per scacciar via i mezzadri e distruggere, se necessario, le case coloniche.

“Il reverendo Casy e il giovane Tom si erano fermati sul ciglio dell’altura e stavano contemplando la proprietà dei Joad. La baracca di legno, sfondata in un angolo e divelta nella fondamenta, era piegata su un fianco e puntava verso l’alto. Le staccionate erano scomparse e il cotone cresceva sull’aia, fin sotto la casa, attorno al granaio, e tra le rovine dei fabbricanti annessi. Il duro terreno dell’aia, rassodato e battuto dai piedi nudi dei bambini, dagli zoccoli dei cavalli, dalle ruote dei carri, s’era trasformato in terreno da semina e vi cresceva ora il verde, polveroso cotone. Tom contemplò a lungo il salice scheletrito presso l’abbeveratoio asciutto, e il pozzo in cemento ora privo di pompa. “Gesù” disse alfine ”è la fine del mondo. Impossibile che ci abiti qualcuno lì”. Si mise a correre giù dalla china, seguito da Casy. In quella che era stata la stalla non rimaneva che un mucchietto di paglia trita, popolata da una famiglia di topi; nel ripostiglio degli attrezzi, un vomere rotto, un rotolo di vecchia corda da imballaggio, un rastrello di ferro tutto contorto, il collare del mulo rosicchiato dai topi, una latta di benzina vuota e una tuta a brandelli appesa a un chiodo. “Non c’è rimasto più niente” mormorò Joad”

 Le trattrici vengono descritte da Steinbeck come mostri, azionati da uomini che non sono più uomini e inviati da fantasmi (le Società, Le Banche), che saranno anche entità create dalla mente dell’uomo, ma che adesso, pur senza esistere in concreto, comandano, governano, decidono. Un po’ come Dei. E l’uomo viene scacciato dalla sua terra, e si ammassa su autocarri, automobili e va altrove. In California, dove ci sono gli aranceti. Però, e Steinbeck, lo dice, questa gente non va verso una terra promessa in senso stretto: esegue invece una disperata corsa per piegare di nuovo la schiena, sollevar pesi, affaticarsi, ammalarsi, ammazzarsi di lavoro. Lo dice, Steinbeck, da qualche parte. In più, la voglia di andare via da quel paesaggio lunare, coperto di polvere, assediato dalle trattrici della Shwnee Land & Cattle Co., è tanto grande che nessuno mette in discussione in California ci sia lavoro, le cose in California possano andar meglio che a Sallisaw in Oklahoma. Si parte e basta, si fugge. Sì, poi arrivati in California, dopo un poco qualcuno azzarda qualche suggerimento: “Si dice che a Santa Clara ci sia…”, “Ho sentito dire che a Marysville forse…”. Ma a nessuno viene in mente di inviare qualcuno in avanscoperta. La famiglia deve rimanere unita. Perde i pezzi, magari – al nonno piglia un colpo e crepa, la nonna spira, e tutto per il viaggio massacrante, e per il dolore della catastrofe portata nelle vite d’ognuno dalla tempesta di sabbia, e per colpe antiche. Ma la famiglia rimane compatta. Poi, soldi non ce ne sono. Le distanze son troppo grandi. I mezzi di comunicazione praticamente non esistono. Non compare una lettera, in tutto il romanzo. Sono i latifondisti o i loro rappresentati a presentarsi di persona dai mezzadri e a dare le brutte notizie. Anche perché i braccianti che domicilio hanno? Dove vive, un bracciante? E’ una realtà primonovecentesca, quella descritta da Steinbeck. Fatta di autentiche catapecchie perennemente in penombra per la debole luce delle lampade a petrolio, o nelle verande per le lampade ad acetilene, raramente lampade ad elettricità. Ai bordi delle strade rottami d’abitazione, hooverville, attendamenti, case fatta di paglia o di cartone o di pezzi di lamiera:

“Passato il ponte, trovarono sulla destra della strada un deposito di vetture fuori uso: un acro di terreno  circondato da un’alta siepe di filo spinato, al centro del quale si elevava una modesta baracca di lamiera. Dietro a questa baracca c’era un casotto costruito esclusivamente con vecchie cassette e con latte di benzina, che aveva per finestre dei parabrezza d’auto. Tutto il resto dell’area era occupato dagli avanzi di veicoli sfondati, telai contorti, spesso privi di ruote, carrozzerie, assi posteriori, alberi a gomito. Un mare di rottami; un putridume di relitti.”   

“Le tende, le capanne, le automobili erano sparse per l’accampamento nella massima confusione. La baracca più vicina all’entrata era quanto di più miserabile si potesse immaginare: la facciata risultava di sei grandi teli di sacco, il lato est, di vari pezzi di cartone, il lato opposto, di stuoie, e il rovescio, di lamiera ondulata; il tetto era di paglia, ammucchiata alla meglio sopra un’intelaiatura di rami di salice. […] Nell’interno, una latta di petrolio serviva da fornello, ed era  munita d’un pezzo di tubo di stufa che usciva dal tetto. Vicino al fornello stava un mastello per il bucato. Il resto del mobilio consisteva di cassette di legno. […] Più in là ancora una tenda di grandi dimensioni incredibilmente logora e disseminata di toppe e rammendi fatti con filo di ferro. Dai lembi sollevati dell’apertura si intravvedevano per terra quattro ampi materassi. […] Erano forse una quarantina in tutto, le tende e le capanne, e ciascuna aveva la sua automobile”

Dunque, tutti in partenza. Si attaccano ai predellini della Dodge un paio di barilotti pieni di carne di maiale e patate bollite, e via. E le carovane son fatte di automobili. Furore è anche un grande romanzo di automobili e mezzi di locomozione meccanica. Di descrizioni ferrose, tutta roba di acciaio, viti, bulloni. E impareggiabili sono le descrizioni di Steinbeck sull’ammassarsi degli individui negli autocarri, sui predellini, con le masserizie a sbatacchiar sui tettucci delle Ford e delle Plymouth…

Nessun scrittore più di Steinbeck è in grado di mostrare l’identità di un individuo dalla descrizione dei vestiti che ha e dall’aspetto che ha.

“Arrivarono in quattro, capeggiati dal nonno, un arzillo vecchietto, scarno, in cenci, che camminava leggermente zoppo a piccoli passi saltellanti, abbottonandosi il panciotto di maglia con mani impacciate, perché aveva infilato il primo bottone nella seconda asola e ciò bastava a sconvolgere l’ordine delle operazioni. Anche i pantaloni erano sbottonati e dall’apertura usciva un lembo della camicia di grossa tela blu, che era totalmente aperta sul petto e lasciava vedere una selva di peli grigi. Rinunciò al panciotto e si arrovellò coi bottoni dei pantaloni, ma abbandonò presto anche questo tentativo e si contentò di dare una stratta alle bretelle per assicurarsi della loro solidità”  

Né il dramma di una situazione descrivendo una famiglia che si riunisce penosamente a tavola e dove c’è poco da mangiare e tutto è uno schifo.

“La mamma inginocchiata vicino al fuoco stava aggiungendo fascine per tener viva la fiamma sotto la pentola del bollito. Attorno a lei, il circolo dei bimbi affamati s’andava stringendo sempre di più, e i marmocchi arricciavano i nasini ogniqualvolta coglievano l’odore della carne. […] Ora il gruppetto dei bambini faceva ressa attorno alla mamma affaccendata, tanto che Tom e zio John si erano trasferiti presso di lei per proteggerla dalla famelica turba.

“Non so proprio comne fare” mormorava la mamma, “c’è n’è appena a sufficienza per noi”. I visi intenti, immobili dei bambini seguivano meccanicamente con gli occhi ogni mossa. Allorché la donna passò nel piatto a zio John la prima razione che trasse dalla pentola fumante, tutti gli occhi si posarono sulle mani si zio John. Egli assaggiò la minestra in cui nuotavano pezzi di carne bollita, e tutti gli occhi accompagnarono il cucchiaio fino alla sua bocca, e quando egli inghiottì il primo boccone, si posarono sulla sua faccia per notarne le reazioni. Era buona? Gli piaceva?[…]

Tom si volse ai marmocchi: “Ora voialtri vi squagliate, capito?” Tutti gli occhi si posarono stupiti sulla sua faccia. “Filate. Inutile star qui, non ce n’è abbastanza per tutti”

Il mestolo della mamma andava metodicamente dalla pentola ai piatti di stagno allineati in terra, ed ella continuava a mormorare: “Come si fa a mandarli via. Non so proprio cosa dire. […] Sentite bimbi, andate tutti a cercarvi un cucchiaio e poi tornate qui. Ma non facciamo confusione, intendiamoci”

Il gruppetto si squagliò sull’instante ma prima ancora che la mamma avesse finito di distribuire le razioni alla famiglia si era già riformato. I marmocchi erano tutti lì, trepidanti, affamati come lupetti, ma silenziosi. La mamma li arringò: “Vedete che è poca? Vi lascio pescare una cucchiaiata per uno. Dovete contentarvi”

Penosissimo. Efficace. Ma anche terribilmente crudele.

Non c’è pietà, in questa storia. Non c’è una via d’uscita. E’ soltanto la descrizione di una condizione di una famiglia in mezzo ad altre famiglie, una condizione da cui non c’è riscatto. Le cose stanno così. I Joad sono al mondo per patire. Tuttavia, c’è un senso di giustizia che tiene in equilibrio la narrazione. Ciò che accade non è del tutto arbitrario. Non c’è nulla che avviene per capriccio di John Steinbeck. I Joad hanno commesso degli errori, hanno peccato, non sono i buoni, e dalla tempesta di polvere in avanti è tutto soltanto un pay-back.

Tom Joad è stato in carcere per aver ammazzato a badilate un uomo nel mezzo di una rissa. S’è beccato sette anni, ma esce libero sulla parola per buona condotta. Solo sette anni perché Tom la badilata l’ha tirata dopo una provocazione.

“Eccolo là, l’ergastolano! Nessuno dei Joad è mai stato in gattabuia, porco d’un cane. Ma è stata un’ingiustizia, quei bastardacci l’han condannato a torto, io avrei fatto preciso come lui. E quel buggerone d’un vecchio puzzolente che andava sbraitando di volerti far la pelle appena venivi fuori. Ma badi ai casi suoi, o lo concio io per le feste!” 

Tom torna dalla famiglia e sulla strada incontra Casy, un predicatore che ha perso la fede. Casy viene subito accolto con calore dalla famiglia di peccatori Joad. Prego, Casy, un predicatore in casa può far comodo. Pecie se è senza Dio. Così, Tom Joad rivede il fratello Al, e i nonni, e la famiglia. Ed ecco il ritratto del nonno e della nonna:

“Aveva una faccia magra e irascibile, e due occhietti chiari e maligni e petulanti come quelli d’un bimbo brontolone e insolente: nel complesso l’aspetto di un omino sarcastico, pronto alla disputa così come agli atti con le parole. Raccontava barzellette sporche. Era scurrile adesso come una volta, vizioso, impaziente, prepotente come un bambino capriccioso; ma sempre rumorosamente allegro. Beveva troppo, quando poteva, e mangiava troppo, quando c’era abbondanza sulla tavola; e parlava troppo sempre.

Dietro a lui veniva saltellando la nonna, che aveva resistito alla vita coniugale solo perché era maligna e aggressiva quanto suo marito. Era sempre riuscita a difendere le proprie posizioni per virtù di una stridula religiosità feroce, che era non meno scurrile e selvaggia di quella del marito. Una volta, dopo il servizio divino, aveva sparato dato di piglio al fucile e aveva sparato i due colpi contro di lui  che fuggiva come una spia, ficcandogli anche una dozzina di pallini nelle natiche. Da quel giorno il nonno l’aveva sempre rispettata”.

E in famiglia si chiacchiera. Salta fuori che qualcuno in famiglia da giovane piaceva alle fanciulle come i più giovani oggi… Se si presta attenzione, se si legge con disincanto, e dando importanza a ogni passaggio, si capisce quanto Steinbeck sia abilissimo nel suggerire che in questa famiglia  vi sia stato un momento dove si è vissuto spensieratamente, non badando al futuro, e che questa non è casa di santerellini, e adesso sono tutti quanti in povertà assoluta. E l’autore di Una corriera stravagante si limita a far questo: giustappone degli episodi, e la vicinanza tra gli eventi deve suggerire una sorta di correlazione, allorché capiti qualcosa di tragico. Muore la nonna, ma nella notte, mentre lei spirava, altri (Connie e Rosa Tea) in casa amoreggiavano…

Al primo sopruso operato dalle forze dell’ordine alla famiglia Joad nella loro nuova condizione di vagabondi, Noè se la svigna… Vivrà di pesca. In effetti, un nome così evocativo all’interno di un autocarro stipato di tutte le cose di una vita, avrebbe potuto starci fino in fondo solo se alla fine fosse apparso un arcobaleno in cielo. Invece, l’autocarro dei Joad non è un’arca, e Noè, il primogenito della famiglia Joad, taglia presto la corda, Steinbeck lo fa uscire di scena in fretta. Tra l’altro, il povero Noè non è tutto giusto. Per colpa, a quanto pare, del suo babbo.

“Quando Noè era venuto al mondo, il babbo, sconvolto alla vista delle cosce divaricate della partoriente, solo in casa e terrorizzato dalle grida della moglie, aveva usato delle proprie dita come un forcipe: aveva estratto lui la renitente creatura fuor dal suo immondo ricettacolo. La levatrice, arrivata tardi, aveva trovato il pupo con la testa deforme, il collo stralungo, e il corpo bilenco; e l’aveva riplasmato lei alla meglio con le sue mani. Ma il babbo non aveva mai dimenticato la macabra circostanza e e tutte le volte che ci pensava sentiva onta. Ed era verso Noè più indulgente che verso gli altri figli”

Forse perché è ridotto così Steinbeck se lo leva dai piedi. L’autocarro dei Joad non è un’arca, anche se a tutta prima potrebbe farlo sperare, e non c’è un arcobaleno in fondo alla storia, e il ragazzo ha già la sua punizione per via della deformità e della deficienza mentale. Non serve ficcarlo in un infernale odissea supplementare.

Furore è scritto meglio della Bibbia. Infatti, nella Bibbia abbiamo il racconto dell’esodo di una tribù, come se Javhé fosse il dio di quella tribù soltanto. Si dà per scontato non sia così. Invece, in Furore abbiamo per esteso la vicenda dei Joad e alla fine di ogni capitolo sulla vicenda particolare, abbiamo un breve capitolo sulla sorte delle altre famiglie di profughi del Mid-West… ed è chiaro che ciascuna di quelle famiglie di “maledetti Oakies” non ha un destino molto dissimile da quello dei Joad. Tra l’altro, “Joad”, se vogliamo, richiama “Jews”. Sicuramente “carro bestiame” a noi richiama il campi di concentramento, anche se Furore è del 1938 e i carri bestiame dei deportati nei campi di sterminio nazisti cominciarono a entrare in funzione nel 1941 circa.

Esiste forse una colpa ontologica, aprioristica (al di là di specifiche colpe e manchevolezze di ciascuno) dei Joad e di tutti i Joad del Mid-West? Sì, se si considera nei capitoli iniziali la figura di Muley Graves, il quale si è piantato in quella che è sempre stata la sua casa (anche se proprietari sono i latifondisti), e non vuole andarsene, difendendosi come un indiano da Willy Freely e la sua trattrice. Muley Graves e le trattrici sembrano ricordare i tripodi della Guerra dei mondi di H.G. Wells. Di sicuro sembrano mostri, robot o alieni che siano. Quello è piantato lì, come un indiano, e combatte, per tutto ciò che è stata la sua vita in quel luogo. Forse è anche questo che i Joad, e gli Oakies, devono ontologicamente scontare: una volta il territorio americano era degli indiani e ora non lo è più a causa di una prevaricazione. Il fato non si è dimenticato di questo.

Non solo, ma anche la California, la terra promessa degli Oakies, non se la passa poi granché bene, dopotutto. Ci sono terreni e terreni da coltivare, ma nessuno può far nulla perché sono le Società ad avere in mano tutto quanto. Del paesaggio di povertà estrema abbiamo già detto. Forse, anche la California, come l’Oklahoma, e un po’ tutta quanta l’America, ha qualche colpa antica che il Fato non ha dimenticato? Difficile andare dritto lungo questa via interpretativa, ma ecco come attacca Steinbeck il capitolo XIX:

“Una volta la California apparteneva al Messico, e le terre ai messicani; ma orde di straccioni americani irruppero nel paese. E così imperiosa era la loro fame di terra, che si impossessarono della terra di Sutter, della terra di Guerrero, la spezzettarono, si azzuffarono  a vicenda per disputarsene le briciole, e munirono di cannoni i poderi così conquistati. Fabbricarono stalle e casolari, campi e raccolti, costruirono titolo di possesso; e il possesso diventò proprietà.

I messicani deboli e sazi, non avevano potuto opporsi all’invasione perché non c’era nulla al mondo che essi desiderassero con quella frenesia con cui gli invasori americani desideravano la terra.

Poi, col tempo, i predoni non più considerati tali, si dichiararono padroni, e i loro figlioli crebbero nel paese e procrearono altri figlioli. E non sentirono più la fame selvaggia, mordente e lacerante della terra…”

Che dire, in conclusione? Temo che questo romanzo sbricioli al suo cospetto qualsiasi altro romanzo americano. Perché come la Bibbia, parla di un genere di uomini, con i quali non è possibile non avere nulla a che fare: uomini odiati dal loro stesso Dio, uomini che non possono nulla. Ciascuno di noi, nessuno escluso, nessuno, ha a che fare con un lato della propria vita infinitamente più forte e infinitamente crudele, e contro cui non può nulla. Furore non mostra altro che questo. Steinbeck non era certo un uomo buono, ma sapeva cosa fosse un uomo e lo era.  

Marco Candida