Non c’è fumo senza arrosto: è palese, così come non può esistere un biodigestore senza miasmi.

Il ciclo stesso di trasformazione della materia prima, nei vari impianti come i biodiogestori, infatti, consistente in sostanza nel far “marcire” in condizioni ovviamente controllate, dei rifiuti per generare una quota parte di metano e smaltire il rimanente è un processo che di per sé genera odore.

Questo è più che evidente anche ai profani. Se i miasmi però si fanno eccessivamente frequenti dopo alcuni anni di attività in un impianto a regime, qualcosa, evidentemente, deve essere successo.

Solo pochi mesi fa, la cronaca riportava quanto accaduto in Val Bormida: una inchiesta scattata lo scorso anno a seguito di alcuni esposti per miasmi nella zona di un impianto biogas oggetto di un recente ampliamento. Un particolare apparentemente di poco conto che avrebbe poi portato all’apertura di un filone d’indagine sulla società che gestisce il biodigestore e i miasmi prodotti dall’impianto, scoprendone la relativa emissione di sostanze ritenute nocive. Un caso di presunto inquinamento ambientale che ha attirato l’attenzione della guardia di finanza e della procura. Il pm Vincenzo Carusi identificò delle irregolarità nel compost e nella sua realizzazione, risultata non corretta. Per meglio dire, nei residui di fermentazione del biodigestore non ci sarebbero finiti solo i rifiuti “umidi”, ma anche veri e propri rifiuti speciali. Tale composizione anomala avrebbe portato alle contestazioni, suffragate da intercettazioni telefoniche al vaglio della procura, da cui sarebbero emerse le accuse di presunto inquinamento ambientale ed atmosferico.

Nessun riferimento con Tortona, ovviamente, ma solo per far capire l’importanza e la necessità di effettuare sempre controlli capillari e ad hoc, non solo all’interno, ma anche all’esterno degli impianti e anche per quanto riguarda i trasporti di materiale, perché non sempre è facile individuarne la causa dei miasmi.

Di certo che se i miasmi si fanno insistenti, questi episodi devono essere comunque interpretati come segnali di allarme: esistono strette correlazioni biologiche e tecnico-procedurali, infatti, tra la quantità e la qualità del materiale introdotto in un impianto, la stabilità di un processo, il materiale che affluisce e tanti altri aspetti di cui non sempre i gestore può essere individuato come responsabile o come unico possibile responsabile.

La produzione di energia elettrica e di energia termica da parte del cogeneratore (che brucia il biogas prodotto per fermentazione) è direttamente legata alla quantità di biogas prodotto durante la fase di “digestione” a sua volta correlata alla qualità e tipo di materiale conferito e lavorato in fase di pretrattamento (rapporto tra FORSU e fanghi).

Gli odori possono divenire causa di fastidio e malessere e per questo la loro valutazione è uno degli obiettivi primari per poter fissare i requisiti di un ambiente sano e vivibile. Peraltro, contrariamente all’analisi chimica, quella olfattometrica non fornisce l’identificazione di una sostanza o di un gruppo di sostanze, ma solo le unità di odore della miscela gassosa, misurandone l’impatto olfattivo. Per una definizione maggiormente esaustiva del possibile problema bisognerebbe introdurre delle analisi chimiche sui materiali di carico, sul compost finito e sugli aeriformi dispersi, effettuate da laboratori terzi. Non basta dire “questo o quello puzza”. Occorre determinare con univoca certezza il “perché” puzza, cosa contiene per puzzare così. E se tale composto è pericoloso o meno lo può stabilire solo una analisi chimica delle sostanze contenute.

Queste analisi sono previste? Se ancora non lo sono, saranno espressamente richieste? In quale fasi del processo e con quale frequenza di campionamento?

Annamaria Agosti