Si intitola “Ruota immanente” ed é l’ultima mostra personale di Gaspare Sicula in arte Feliscatus. E’ stata inaugurata domenica alla  11DREAMS Art Gallery  in via Rinarolo, 11/c a Tortona e rimarrà aperta fino al 6 marzo col seguente orario: dal mercoledì alla domenica 16 – 19

E’ lo stesso autore a spiegare l’essenza della mostra.

“Quando viene amputato un arto, o parte di esso – dice Gaspare Sicula –  il cervello, avendone memoria, continua a sentirlo presente, ancora vivo, sensibile in tutta la sua precedente, naturale estensione; e se si percuote o punge il vuoto che l’arto mancante ha lasciato si prova dolore come se ancora ci fosse. Medici e neurologi potrebbero essere più precisi a questo riguardo. Ad ogni modo penso che immaginazione e memoria siano strumenti adatti ed efficaci per occupare e riempire spazi vuoti. In pittura lo sono. Nel 1990 cominciai a occuparmi di scultura. A più riprese l’avevo fatto negli anni del liceo, anche al di fuori dei corsi scolastici, e prima ancora quando, intorno ai dieci anni, andavo a prendere la creta presso una fornace che fabbricava nziri e giarre, e anche altro, forse vasi, forse salvadanai. Mi capitò di avere a che fare pure con il marmo. Abbandonai presto questo materiale il cui biancore non mi attirava particolarmente, per dirla tutta mi dava disturbo e inquietudine. Non sono mai riuscito a bere il latte bianco, lo stesso odore, se non c’era del caffè mescolato a esso, o del cioccolato, lo trovavo nauseante; in genere non mangio formaggi, tranne il grana che devo dire mi piace parecchio (il suo colore giallognolo – ma la parola grana indica anche una varietà di rosso – e quel modo di rompersi a scaglie lo trovo gradevole per i miei gusti, nella consistenza desiderabile e gratificante; è forte la malinconia che suscita arrivare in prossimità della crosta) e qualche mozzarella, se condita con olio e origano e mescolata a pomodori in pezzi.  Mi piace il sugo prima di tutto perché è rosso.”

“In quel 1990 – conclude Sicula –  in un certo qual modo, fui obbligato a mettere da parte la pittura; fu il mio corpo a pormi l’alt. Provenivo da alcuni anni d’intenso lavoro, la seconda metà del 1986, il 1987, l’88, l’89 e i primi due mesi dell’anno successivo. Potevo scrivere “dalla seconda metà del 1986 ai primi due mesi del ’90”, ma così facendo avrei tolto importanza e senso, unicità a ogni singolo irripetibile periodo. Fatti i conti, dunque, un quadriennio. Nel quale vennero fuori temi che ripresi più volte negli anni che seguirono: i gatti (volti di gatto con corpi “pittorici” umani), le isole (barche che smettendo di viaggiare mettevano radici), le arance azzurre (il sé e il suo contrario, uniti dalla complementarità dei colori), i pranzi d’artista, con piatti colmi di tubi spremuti; i frutti appassiti (il tempo giocoliere della materia), Cactus (personaggi fatti di pale di ficodindia in costruzioni corporee “spontaneamente” cubiste), le conchiglie (o brocchiglie, brocche e conchiglie, conchiglie con manici, beni culturali, contenitori di speranze, gocce fossili), le tele (il piacere di dipingere l’immagine del supporto pittorico; tela dipinta su tela, tela su tela dipinta, verità e menzogna accostate, poste in un luogo nel quale vigeva l’intercambiabilità tra sopra e sotto, tra realtà e rappresentazione).”

Una delle opere in mostra

Una delle opere in mostra