Egregio Direttore,

perdoni se approfitto dello spazio che gentilmente vorrà concedermi, ma vorrei condividere con i suoi lettori alcune considerazioni che mi riguardano e potrebbero anche essere occasione di riflessione per altre persone, giovani e non.


Ad avermi regalato la preziosa quanto essenziale consapevolezza d’aver indossato per troppo tempo una maschera in ogni frangente della vita, ad avermi incontrovertibilmente cambiata nel senso letterale del termine e cioè restituita ad una persona diversa dalla precedente, sono convinta sia stato l’incontro (inizialmente scontro) con l’attore Giuseppe Morrone nel marzo 2019. Grazie a lui mi sono resa conto di tutta la mia, chissà se davvero celata, fragilità. Di quello stretto abito proprio di chi in modo tirannico si ostina a voler negare le continue trasformazioni e nei dell’esistere in quanto essere umano, pur non stancandomi mai d’indagare con condivisa sol a brevi sorsi, innata, ironia e provocazioni quella fluidità dell’esperire che assai sovente mi ha destabilizzata negli anni – e più percepivo la mia insicurezza e maggiormente la soffocavo con pretese da supereroina.

Non penso tuttavia che tale fortunata coincidenza mi abbia “indebolita”, quanto piuttosto al contrario regalato la meravigliosa scintilla del destrutturarsi necessaria ad andare al di là di un prima ingessato e freddo mostrarmi che era figlio di un’immagine che ho a lungo cercato di costruire “a tavolino”, così da rispondere ed adattarmi a sovrastrutture che nulla hanno a che fare con il più inviolabile dei valori: la libertà d’essere ciò che si sente in ogni irripetibile istante. Da qui deriva anche e soprattutto la mia rinvigorita contrarietà a definirmi e definire le mie fotografie d’arte su tela.

Noto invece come alcuni creativi pare sappiano esattamente chi loro siano e cosa vogliano, cosa ambiscano a trasmettere con le personali opere …Io, al contrario, mi ritrovo per la maggiore confusa, insicura e a bisticciare con me stessa poiché insofferente verso la staticità e quella serena e baldanzosa padronanza che ingabbia e rende ripetitivo ogni immortalato stato d’animo di chi come la sottoscritta, in primis ed ultima istanza, percepisce di essere a casa soltanto nella meraviglia di occhi inquieti e profondi, dell’arte, a tentare di trascendere ed andare oltre i moltissimi confini spazio-temporali. Arte che abbisogna di scorrere, indomabile, nelle vene di chi di continuo tenta di immergervisi per elevarsi (e forse sfuggire) dal limitato dato di realtà, dalle mere coordinate concrete.

Non sono mai stata una ragazza, poi una giovane donna che ama truccarsi: non mi piace come ombretti, rossetti, fondotinta etc. appesantiscano la mia faccia e la invecchino. Stucco e pittura sul mio viso quando sono sotto stress o desidererei fare un “figurone”. Se tuttavia mi fermo ad osservare un qualsiasi altro volto, ne vedo parecchi ad apparire perfetti dietro mascara, cerone, blush e “chi più ne ha più ne metta”. Immagino che vi starete ora domandando cosa centra questo con l’arte, ma in realtà vi ha a che fare eccome! Perché richiede molta umiltà e onestà volersi bene per come si è, con i propri pregi e i propri difetti – ciò che ovvero non sono mai stata in grado di fare fino in fondo. Spogliarsi delle costruzioni e dei filtri abbisogna di un autentico amore per la verità, per l’interrogarsi senza posa, per l’esplorazione e la ricerca di quel sottile e leggero spiraglio istintuale di luce a non risparmiare il buio, bensì a comprenderlo e coltivarlo con naturalezza in special modo nelle fotografie che si scattano, nelle poesie che si compongono, nei ruoli che si interpretano su un palco o nei protagonisti che si rievocano davanti alle telecamere.

Ed è per l’appunto la già detta datità fisica, in qualche maniera a costringere inevitabilmente dalla nascita noi tutti eppure che continuo a voler trascendere e che adoro dell’Arte, la quale straordinariamente mi permette di avvicinarmi a tale mia irrinunciabile esigenza di non contenimento. Ho persino sovente provato ad immaginare, sull’esempio di Marina Abramović, se sia possibile disincastrarsi da codesto limite e confinamento materiale ma pur nell’elaborato artistico – mi pare – improbabile non servirsi di supporto alcuno. Anche il proprio corpo, il corpo dell’artista diviene fondamentale per creare, se non altro come veicolo e ciò a tormentarmi e catapultarmi di continuo nell’umana microscopicità, nell’umana miseria e al contempo notevole potenzialità, e nel mistero della vita a 360 gradi .

Mi piacerebbe infine, talvolta, farmi portatrice di uno specifico pensiero, di una caratterizzazione riconoscibile ed unica, di una peculiarità inimitabile e ben precisa ma la verità è che non tollero la benché minima categorizzazione schematica, le generalizzate regole imposte a priori e gli addomesticamenti sociali e però, nonostante ciò, questi hanno da sempre sedato le mie emozioni… e ancora adesso non posso dirmi completamente svincolata dallo strutturato allorché mi infastidisco di fronte alle ripetizioni nei testi, alle imprecisioni quali aloni e sbavature, alla sproporzione e alla sommarietà nei comportamenti e nelle immagini.

Chi è dunque ad oggi Giulia Quaranta Provenzano, o piuttosto GQP? Una viandante che desidera Essere e non di meno ha infinitamente bisogno di percorrere altrettante vie e vie fuori da ogni logica e razionalità, non di rado preconfezionate, per potersi accostare un minimo al dimostrarsi Artista con la -A maiuscola.

Giulia Quaranta Provenzano