Quella che pubblichiamo di seguito, come tutte le vicende che riportiamo sul giornale, è una storia vera.

Sono le parole di un operatore sanitario che ha confidato a una collega prima di passare dall’altra parte, nelle file di quei malati che fino a poche ore prima ha curato.


Parole che la donna ha trascritto e ha deciso di inviarci con lo scopo di far comprendere a tutti che con questo virus non si scherza e non bisogna mai abbassare la guardia.

Quando sembra che tutto stia volgendo al meglio lui, infatti lui è lì, dietro l’angolo, subdolo, che aspetta di prenderci e di infettarci. Le altalene di morti e persone infette a cui assistiamo ogni giorno, sono la prova più evidente.

Quella che pubblichiamo, quindi, è una testimonianza importante, perché qui non si tratta di un anziano pensionato con patologie pregresse ma un uomo forte e in salute.

Ne suggeriamo la lettura soprattutto a quelle persone che, in maniera molto spavalda, se ne vanno in giro a cazzeggiare, convinte di essere immuni al virus e ignare del calvario a cui è possibile andare incontro quando si rimane infetti.

Caro Covid-19,

sono mesi che ti guardo negli occhi. Ti ho visto negli occhi dei malati che assisto, quelli a cui tu hai soffocato il respiro con una polmonite bilaterale interstiziale, quelli a cui hai compromesso gli altri organi vitali, stritolandoli con parametri sballati, fino a mollare la presa solo con la morte di quell’organismo in cui ti eri intrufolato in maniera subdola.  

Sono mesi che siamo su due fronti opposti. Tu, impegnato a diffonderti, a moltiplicarti, a infettare; io impegnato a dare tutto di me stesso nel coadiuvare chi cerca di contenere i tuoi danni, accanto ai malati, ai medici, agli infermieri. In ambulanza, in ospedale, nelle case dei sospetti positivi.

Noi due, contrapposti, a contenderci la vita di una persona, poi due, dieci, venti….

Poi non c’è stato più tempo per contarle perché tu ti moltiplicavi in maniera esponenziale. 

Ti avevo davanti agli occhi nella tua opera devastante: eri lì, ogni giorno, attorno a me, nonostante le mascherine, i guanti, i camici monouso, gli occhiali di protezione, i copriscarpe.

Tu c’eri là fuori, io e gli altri sanitari c’eravamo. Lo sapevamo che c’eri.

Sapevamo che potevi infettarci ma siamo andati avanti lo stesso perché questa era la nostra battaglia: noi contro di te: tu a rubare vite e noi a cercare di salvarle.

Sapevano i rischi, sapevamo che potevi infettarci e alla fine lo hai fatto. 

L’altra sera, dopo l’ennesimo servizio ininterrotto, mi sono sentito, per la prima volta, veramente sfinito. Avevo una febbriciattola, 37,3. Da stanchezza, pensavo.

L’indomani c’era ancora, era salita, e iniziarono i primi problemi respiratori. Non ho mai fumato né sofferto di asma e le crisi respiratorie le ho viste solo nelle persone che assistevo. Viverle in prima persona è diverso.

E non perché pensi che a te non possa capitare, in quanto ti ho visto aggredire persone anche più giovani di me, ma perché questa è la tua battaglia anche se sai che poteva succedere.

Il problema è che a un certo punto, mentre stai desaturando, rivedi davanti agli occhi come è andata a loro, e ti rendi conto che stavolta tocca a te. A quel punto arriva la paura perché sai che tanti muoiono, malgrado le nostre cure e il nostro intervento.

Per questo, mentre sto aspettando l’arrivo dell’ambulanza che immagino mi porterà in ospedale, e dove forse sarò intubato e non potrò più comunicare, racconto a una collega i pensieri sparsi che mi invadono la mente, per fissarli e lasciarli scritti.

Vorrei tornare un giorno, guarito, per rileggerli.

É la mia scommessa sul futuro, spero sia un futuro prossimo. 

Ecco, i sanitari sono arrivati, Covid. Andiamo.

Adesso siamo solo io e te, uno di fronte all’altro, senza intermediari e con un solo vincitore. Ma, ti assicuro, non sarà facile prendermi.

Un OSS positivo al Covid