Siamo sopraffatte da sentimenti contrastanti, rabbia, tristezza, rammarico, alla notizia del femminicidio che si è consumato a Valenza e che è costato la vita a Rita.

Negli occhi abbiamo i volti delle donne, tante, incontrate al Centro Antiviolenza in questi sette anni di lavoro. Abbiamo le loro parole e le loro lacrime ad ogni colloquio, nella stanza dalle pareti verdi, che scorrono lentamente come il sangue da una ferita, ma che nello stesso tempo curano la loro anima alla ricerca della libertà.
Nelle orecchie abbiamo tutte le parole spese a incontri pubblici, eventi,  dibattiti, e le promesse di politici ed esperti che dichiarano a gran voce posizioni di contrasto alla violenza.

Nella testa e nel cuore ci sono gli operatori che lavorano quotidianamente per  aiutare le donne a uscire da situazioni pericolose: assistenti sociali, medici, ma anche avvocati, forze dell’ordine, che si sforzano davvero per sviluppare strategie e metodi sempre più efficaci per fermare questa strage.

 

Eppure non è abbastanza.

Perchè lo sappiamo. I numeri delle donne che vengono uccise ogni giorno è enorme. Uccise nella loro anima e nel loro femminile, non solo morte ammazzate.

Perchè per morire a 70 anni, accoltellata alla gola per mano del tuo compagno, significa che sei stata uccisa ogni giorno della tua vita da donna.

Sei stata uccisa lentamente, lacerata, fratturata, dilaniata, violentata, offesa, umiliata, nascosta dietro la parvenza di casalinga felice con la passione delle torte di mele, reda invisibile, anche a te stessa.

E tutto questo è avvenuto, giorno dopo giorno, tra le mura di casa, nel privato, presentandosi però anche al mondo, che chissà quali e quanti segnali non ha colto, chissà quale pudore ha manifestato, facendosi “gli affari propri”, non volendo violare la sfera del privato altrui.

 

Questa morte e tutte le morti di donne, per mano di uomini, impongono una domanda: dove siamo noi, mentre questo stillicidio prende atto, ogni giorno davanti ai nostri occhi?

 

Di fronte alla notizia di un femminicidio restiamo immobili. Congelati. Senza fiato. Di nuovo, pensiamo, è successo di nuovo. Ma poi i pensieri scorrono via, vanno ad altro, perchè per la morte in effetti non possiamo fare più nulla.

Ma di questa lenta, spudorata, interminabile, uccisione del femminile cosa ne facciamo?

Quanto ci sentiamo coinvolti?

Perchè rimaniamo spettatori di questa guerra al femminile?

Non è forse nell’integrazione delle parti che ritroviamo il nostro essere individui? Non diventiamo forse uomini e donne solo nella ricerca continua di un equilibrio tra il nostro maschile e il nostro femminile esercitando, seppur con fatica, una perpetua danza relazionale.

 

È il mio femminile che viene uccisio, è il mio maschile che uccide. Nessuno dovrebbe sentirsi escluso.

 

Lunedì torneremo al Centro Antiviolenza e continueremo ad accogliere donne, uccise quotidianamente da uomini violenti, le metteremo in protezione e cercheremo di dare loro la libertà che cercano. La dignità che meritano.

Ma non possiamo farcela da sole.

 

Le operatrici del Centro Antiviolenza me.dea