Grande attesa per la presentazione nella capitale termale piemontese, nell’ambito delle giornate culturali dell’Acqui Storia, del libro di Riccardo Nencini, Il fuoco dentro. Oriana a Firenze, Mauro Pagliai Editore,Firenze 2016, che si terrà lunedì 23 maggio alle ore 18,45 a Palazzo Robellini, P.zza Levi 5 – Acqui Terme.

Nencini, Vice Ministro ai Trasporti e alle Infrastrutture del Governo Renzi, sarà introdotto e presentato da Carlo Sburlati, patron e anima del Premio Acqui Storia, che ha già portato a parlare di questi argomenti personalità carismatiche come Franco Cardini e Pietrangelo Buttafuoco.

Riccardo Nencini, in questo libro ci racconta di Oriana Fallaci, la grande giornalista fiorentina e del suo difficile rapporto con la città natale. Che Firenze, nei riguardi dei suoi figli migliori, sia spesso stata matrigna non fa bisogno di dirlo: a dimostrarlo basterebbero, ad esempio, i casi di Farinata degli Uberti, di Dante, di Dino Compagni. Casi che l’autore del libro ricorda insieme ad altri altrettanto significativi. Firenze, del resto, patria dell’arte e della bellezza, nonostante la sua universalità, non è mai stata uno specchio di civile armonia, anzi tanto fra i toscani quanto tra i fiorentini “le faglie”, nel corso della storia, sono state parecchie e, più che ai contrasti fra “toscanacci” e “toscanucci” – difficili da discernere per chi non sia della regione – pensiamo a quelle proverbiali fra guelfi e ghibellini, fra bianchi e neri, fra piagnoni e palleschi. Come spiegarli se non facendo riferimento al carattere dei cittadini, non di rado irriverente e spigoloso, schietto ma anche incline alla rissosità, estroso ma anche portato alla provocazione, generoso non meno che orgoglioso e soprattutto insofferente di ogni costrizione, focoso, impulsivo? Non a caso molti di questi tratti sono quelli che si riscontravano pure in Oriana, della quale (et pour cause) – confessa Nencini – “non era affatto facile coltivare l’amicizia”. Nondimeno questo libro, di gradevole e limpida scrittura, è proprio la storia, commossa e partecipata, della loro genuina amicizia, passata indenne, anzi via via consolidatasi e affinatasi, attraverso un leale confronto di idee, non sempre condivise e condivisibili, e una stima reciproca, venata di affetto e alimentata proprio dalla comune fiorentinità.

Sulle radici fiorentine, d’altronde, Nencini insiste, nella convinzione che siano le radici ad orientarci, a darci sicurezza. E non si potrebbe spiegare la personalità della Fallaci né la sua vita né la sua opera, prescindendo da esse, dal suo appassionato amore per la libertà. Firenze per lei fu e restò soprattutto un luogo dell’anima, dove apprese a “conoscere il talento”, ad “apprezzare la creatività”, ad “amare l’avventura”. Per questo ella ammette di averla “perdutamente amata”. Sennonché, con buona pace di Dante, l’amore non è sempre ricambiato e, per mille ragioni, può anche trasformarsi in odio. E magari con l’odio convivere, se è vero che Firenze continuò ad essere da lei “amata per il passato, odiata per il presente”. All’origine della rottura tra Oriana e la sua città e, di conseguenza, all’origine dell’auto-esilio politico che ella si impose ci furono degli screzi dovuti dapprima, nell’estate del 2000, all’occupazione dello spazio sacro tra il Battistero e la Cattedrale da parte degli immigrati somali che chiedevano il ricongiungimento con i familiari; quindi, all’inizio del 2001, allo “sfregio” alla bellezza della città costituito dalla Loggia (per Oriana una volgare “pensilina”) progettata dall’archistar giapponese Isozachi come uscita dagli Uffizi su piazza del Grano. Fin da allora Oriana si schierò contro il multiculturalismo inteso come licenza di stare in casa d’altri senza rispettarne le leggi e i valori: “una interpretazione lasciva della libertà”, commenta Nencini, che però trova “eccessivo parlare di scontro di civiltà”. Ma alla Fallaci sembrava che l’Italia, in quei frangenti, avesse fatto strame dei propri ideali, dimostrando di essere “godereccia, stupida, vigliacca, imbelle, opportunista”. Non all’altezza, insomma, della sua migliore tradizione.

La rottura divenne irrimediabile dopo l’11 settembre, da cui uscì rafforzata la sua convinzione che dietro l’attentato ci fosse un piano lucidamente preordinato e perseguito: un piano di rivalsa e di (re)conquista da parte dell’Islam, in cui, come in un puzzle, trovavano posto altri tasselli da lei individuati nelle migrazioni di massa, nel fondamentalismo religioso, nell’odio per la libertà e per la parità dei sessi, nel desiderio di riscossa verso l’Occidente. Era, a ben vedere, una visione non priva di coerenza, seppur viziata da un soverchio radicalismo, che, in quanto tale, non teneva conto di fattori importanti come la secolare fitna (“contrasto”, “guerra civile”) che, all’interno del presunto monolite musulmano, contrapponeva sunniti e sciiti. C’era tuttavia in quelle tesi, esposte con foga nel libello La rabbia e l’orgoglio e subito stroncate dall’intellighenzia e dai politici di sinistra, da quella sinistra “che dà i voti, che ha il potere di battezzarti o di scomunicarti”, un fondo di verità. Soprattutto nella denuncia del menefreghismo dell’Occidente, del suo oblio delle radici, del perverso relativismo che rischiava di giustificare “tutto e il suo contrario” e che Oriana vedeva come una minaccia per la democrazia e “uno sfregio alla libertà”. La rabbia e l’orgoglio è infatti “un inno alla civiltà occidentale e un anatema scagliato con impareggiabile durezza contro l’Islam”: contro una religione e una cultura “che rinnega i diritti civili, la parità, calpesta le donne, distrugge le opere d’arte «impure»”. Ed è al tempo stesso “un monito all’Occidente smidollato e all’Italia infingarda” e una profezia. Contro di lei si pronunciarono, con varie motivazioni, i palazzi (e i salotti) della politica e della cultrura, mentre molti cittadini comuni (“la strada”) si schierarono dalla sua parte.

La Fallaci da un lato combatteva la sua strenua battaglia contro “l’alieno”, il cancro che l’andava da tempo consumando, dall’altro era impegnata nel grandioso affresco della sua storia familiare, a partire dal Settecento, che avrebbe visto la luce postumo con il titolo di Un cappello privo di ciliege – “Un omaggio alla sua gente e alla Toscana”.

Oriana, molto provata, trovava le energie non solo per difendere a oltranza ogni affronto alla storia e alla bellezza della sua città, ma anche di proseguire, con La forza della ragione, la sua lotta contro l’infibulazione, la dignità e la libertà della donna, e di conseguenza contro il multiculturalismo, il buonismo a senso unico e ogni relativismo dei valori.

Sia pure con maggiore cautela e qualche riposizionamento (in tutta nonchalance) dopo i sanguinosi eventi francesi, “i compagni di una volta, le donne e gli uomini con i quali aveva condiviso pane e acqua per rincorrere la libertà, proprio loro rinnegavano il passato comune, la mettevano al bando”. Così la laicissima Oriana, l’anarcolibertaria “autrice di Lettera a un bambino mai nato, di Niente e così sia, di Un uomo, mai tenera con la religione cattolica”, respinta dai “suoi”, intravide nel “papa tedesco” Benedetto XVI un alleato prezioso “per alzare un baluardo a difesa della cristianità continentale”. Chiese e ottenne un’udienza privata. Da cui non uscì convertita, ma confortata.

Nencini continuò a sostenerla e a frequentarla, a rischio di sfidare l’impopolarità di molti politici di sinistra e cattocomunismi che si ostinavano a demonizzare quella Cassandra che, seppure stremata dal male, persisteva indomita nelle sue convinzioni così scorrette politicamente da guadagnarle un’accusa di vilipendio della religione islamica e l’ostracismo dei suoi antichi compagni di strada. Continuò a rispondere colpo su colpo ai loro attacchi, senza risparmiarsi. A Nencini va il merito di esserle stato accanto negli ultimi momenti di vita e soprattutto di avere insistito per consegnarle a New York, perché in Italia ciò avrebbe provocato contestazioni oltreché giornalistiche e verbali anche fisiche, a nome della Regione Toscana, un’onorificenza che ne riconosceva il valore di giornalista, di scrittrice e di inviata di guerra, a dispetto di un agguerrito schieramento di politici e di intellettuali (tra cui qualche insospettabile) che manifestarono pubblicamente, e a più riprese, “sgomento e rabbia” al riguardo. Questa ingarbugliata – e a tratti farsesca – vicenda, qui narrata per filo e per segno in un capitolo dall’andamento musicale, con il corredo e il supporto di documenti e di testimonianze inedite, non fa certo onore ai tanti che, per ragioni di parte o per piatto conformismo, si opposero all’iniziativa. Ma Nencini sta dalla parte degli eretici ed ha il coraggio, argomentato, di andare contro corrente, cosicché a fianco dell’amica, tornata a Firenze per morirvi “in piedi” come era vissuta, non stona e non sfigura. Tutt’altro.

Al termine di questo attesissimo incontro Carlo Sburlati, Responsabile Esecutivo del Premio Acqui Storia ed Elisabetta Franchiolo apriranno un dibattito fra l’autore, i giornalisti ed il pubblico presente, anche riguardo alle problematiche anticipate e sollevate dalla battagliera scrittrice fiorentina.